Cinema e StreamingPrimo Piano

Maradona. L’impostore è morto, oppure no?

Oggi è morto Diego Armando Maradona. O forse ieri, non so. 

Immaginate che questo incipit sostituisca quello del ben più celebre Straniero di Camus.

Un tempo indefinito sarebbe impensabile per un “individuo” – uso il virgolettato per coerenza ontologica – dal nome Diego Armando Maradona.

Sì, perché Diego Armando Maradona ha scandito il ritmo vitale di intere generazioni di napoletani. Invece, il 25 Novembre del 2020, a Tigre, Diego Armando Maradona moriva.

Giorno nefasto: l’epilogo del mito collettivo, della decostruzione di un immaginario calcistico,di una rivoluzione delle forze anticapitaliste.

Ma c’è qualcosa del mito e della sua vita privata che ci aiuta a comprendere un elemento che accomuna tutti noi. Qualcosa legato alla nostra identità, al nostro nome e alle nostre vite.

Raccontare Maradona per spiegare i momenti più oscuri delle nostre esistenze. È questo il pretesto teoretico usato dallo scrittore e sociologo della conoscenza Gianfranco Pecchinenda: il desiderio di narrare diversamente.

Il personaggio principale del nuovo romanzo del sociologo italo venezuelano “Maradona, l’impostore” edito da Rogas edizioni, è, per l’appunto, un tal Diego Armando Maradona. Accusato di aver commesso un crimine, viene condotto dal suo assistente legale nello studio di un psicoterapeuta. Seguono i tentativi clinici per comprendere chi è questo strano individuo che si dichiara essere il più grande enigma del sistema calcistico mondiale.

Pecchinenda pone al centro della narrazione un malinteso: può esistere quest’individuo che possiede un nome – Diego Armando Maradona – e due corpi – il calciatore e l’impostore ?

Il mito collettivo, trionfante e liberatorio e l’epifenomeno della sfera privata, l’uomo delle nefandezze, della vita sregolata e della miseria umana. Chi è il “vero” o il “falso” Maradona?

Il quesito, in realtà, è mal posto. Chi crede che vi sia un versione “vera” o “falsa” della realtà sprofonda, inequivocabilmente, in un tranello ontologico.

Nella parte introduttiva del romanzo, Pecchinenda gioca ancora con l’identità di chi non ha nome. Raccontata l’odissea legata a un altro romanzo che, nel 1995, destò un certo scalpore: “Frammenti” di Binjamin Wilkomirski. Si raccontano le esperienze traumatiche vissute nel campo di concentramento di Auschwitz. Tuttavia, dopo alcune indagini giudiziarie si insinua un dubbio: Binjamin Wilkomirski non è mai stato deportato, ma è un impostore che risponderebbe al nome di Bruno Dössekker, un anonimo musicista svizzero.

Ma questa falsificazione dell’identità non finisce qui. Si scopre che Bruno Dössekker non è altro che Bruno Gorsjean, nato in Svizzera, a Biel, partorito da una madre celibe che lo avrebbe dato in adozione ai Dössekker. A poco a poco, aveva mescolato i ricordi della sua autentica infanzia da orfano alle testimonianze di altri bambini sopravvissuti ai campi di concentramento e alle versioni un po’ fantasiose di altre persone incontrate nel corso della sua esistenza.

Cos’è che ci spinge a raccontarci, a usare piccole o grandi menzogne pur di essere ascoltati, riconosciuti ?  

Una certa “fame di genealogia”, per usare le parole del sociologo Pecchinenda.

Una fame insaziabile, una ricerca irrefrenabile di un passato e di un’origine definita, dotata di “senso”. Non basta raccontarsi, ma desiderare l’invenzione, la costruzione di una storia “esemplare” da corroborare dinanzi agli occhi degli altri. Così, Bruno diviene a poco a poco romanziere della sua stessa dipartita e la sua esistenza un costrutto narrativo.

Dunque, quali sono i criteri di verità per l’identità?

È più reale l’identità oggettiva di Bruno o quella soggettiva di Binjamin?

E, ancora, se “realmente” fossero esistiti due Maradona?

Il romanzo è in equilibrio come la punta delle carte napoletane che le nostre nonne usavano per comporre castelli dalle vette altissime.

 Un’identità stabile e salda è fondamentale per costruire una realtà immune da spinte irrazionali. Il processo di socializzazione ha proprio questo fine: ridurre l’incertezza e creare routines che rendono prevedibili i comportamenti altrui. Il nostro cervello non si è evoluto per vedere-percepire in modo più accurato ma semplicemente per sopravvivere.

Il significato delle “cose” e degli “oggetti” non si trova in una realtà esterna avulsa dal soggetto percipiente. Non è possibile distinguere la realtà da un cervello che opera all’interno di situazioni , interazioni e relazioni con l’ambiente e con gli altri.

Sono le esperienze, la vita vissuta a fornire al cervello quel repertorio storico che cesella l’architettura neuronale.

Così ci sono piccoli inconvenienti che si introducono pian piano, in sordina, e che rendono certe realtà più verosimili di altre. Ci ritroviamo a mutare a seconda dell’interlocutore, a mostrare non cose false o vere, ma versioni diverse della stessa storia. La memoria ricostruisce…

E allora rammento il tabacco nella cartina che serravo nella mano tremolante. Gli occhi di R., che avevo amato per più di tre anni, fissi su quello spasmo incontrollabile. Le avevo chiesto di incontrarmi, un po’ rassegnato, con quel l’inevitabile consapevolezza di un amore giunto al capolinea.

Una macchiolina cerulea segnava il centro del suo iride nero pece. Anni e anni a venerare lo stesso sguardo, a celebrare proprio la bellezza dei suoi occhi e la percezione visiva mi offriva questo brutto scherzo.

A distanza di anni, dettagli o impercettibili cambiamenti corporei sembrano annunciare rivoluzioni esistenziali.

Pian piano non riuscivo più a distinguere nemmeno dove era iniziato e dove era terminato il suo amore. La versione della mia identità, almeno quella valida per R., risultava stantia, obsoleta e irriconoscibile.

E allora ci rassegniamo… A quella frattura insanabile tra l’Io e l’Altro.
Le storie, semplicemente, esistono. Raramente riusciamo a capire quando cominciano né tantomeno perché. Siamo incessantemente alla ricerca di qualcosa di vero. Citando le parole di un altro romanzo di Gianfranco Pecchinenda, “Il paradiso degli interstizi”:, “pensiamo che […] la più grande falsità è proprio quella di credere che ci possano essere delle grandi verità da scoprire. La verità è spesso banale, deludente, addirittura marginale. Le grandi verità, quelle, possono essere solo poetiche; bisogna sognarle, inventarle, coltivarle! Imparare ad averne cura. Soprattutto.”

E allora forse, dovremmo sciogliere nodi, avere cura dei ricordi, delle sensazioni provate, del mito e dell’amore. Abbandonarsi all’unica verità che potremmo mai conoscere: la verità della vita.

Luigi Celardo

Vedi anche: Sessanta volte Diego, storia anarchica di una rivoluzione popolare

Luigi Celardo

Uno dei primi ricordi di cui ho memoria è legato alla scelta del mio nome. Mia madre decise Luigi per il richiamo regale, per mio fratello scelse Teo. Insomma: Re e Dio (le aspettative erano basse!) Ho ereditato la follia familiare (non la megalomania, fortunatamente). Dopo una laurea in ingegneria delle telecomunicazioni, ho deciso di specializzarmi nella comunicazione umana in ogni sua forma (addio transistor e resistori!) Cerco di comprendere i segreti del linguaggio bazzicando romanzi post-moderni, saggi di sociologia, pellicole della Nouvelle Vague e serie-tv comiche.
Back to top button