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E se fossimo solamente esausti ? Addolorati e stanchi come i personaggi di Beckett

Chi non hai mai provato imbarazzo per il silenzio protratto in un tête-à-tête amoroso? 

E non avete mai la sensazione di essere esausti? Come in aspettando Godot di Beckett?

Chi non ha mai imprecato inconsciamente quando tutta la presunta abilità da seduttore svanisce in un istante? 

Certo, in quei fugaci intervalli di tempi, l’aforisma di Mia Wallace risuona nella nostra mente paralizzata: “Non odi tutto questo? I silenzi che mettono a disagio… Perché sentiamo la necessità di chiacchierare di puttanate per sentirci più a nostro agio? “ 

Tiriamo un sospiro di sollievo. Una chaise longue ospita le nostre membra spossate, mentre lo spirito di Woody Allen ci rammenta la soluzione al quesito proposto dalla stessa Mia:

È solo allora che sai di aver trovato qualcuno davvero speciale: quando puoi chiudere quella c. di bocca per un momento e condividere il silenzio in santa pace.

Il linguaggio è sicuramente un oggetto misterioso: transita nell’emisfero sinistro, si propaga nella laringe per poi esplodere nella cavità orale. Eppure, quando s’arresta nelle circonvoluzioni del cervello l’imbarazzo è così totalizzante da essere inspiegabile.

Ciò capita, ad esempio, quando la mano destra afferra il cambio automatico della vostra auto. La ragazza che vorreste sedurre è al vostro fianco. Le parole si strozzano in gola e il silenzio governa la scena. Vi assicuro che non c’è citazione che tenga: il disagio esistenziale è palpabile.

In realtà, il silenzio è aberrante perché ci rende esausti, completamente privi della possibilità di pensare a una via d’uscita. L’esausto è molto più affaticato dello stanco: non dispone più di nessuna possibilità soggettiva e non può mettere in atto la minima possibilità oggettiva. È inerme proprio perché l’assenza del linguaggio rappresenta l’ultimo residuo delle sue energie vitali.

L’esausto, infatti, è un individuo che ha uno specifico rapporto con il dolore. Byung-Chul Han, filosofo coreano e celebre sociologo, suggerisce che il cuore pulsante della società post-moderna è attraversato proprio dalla paura del dolore.

Una paura ombelicale, legata all’impossibilità di esprimersi, all’incapacità di esaminare le particelle elementari della lingua. Ed è per questo che se il dolore è equivale al silenzio, allora il silenzio è parte integrante dell’essere esausto.

Certo, nutriamo sempre un ragionevole sospetto per le equazioni matematiche. Probabilmente questo fenomeno risale ai nostri professori che disegnavano bizzarri geroglifici sulle lavagne sotto i nostri occhi sbarrati. Ci obbligavano a capire segni non linguistici, ancor più misteriosi delle lettere dell’alfabeto.

Tiriamo un’ulteriore sospiro di sollievo e proviamo a capirci qualcosa. 

Una caratteristica cruciale dell’odierna esperienza del dolore consiste nel fatto che essa venga percepita come priva di senso. È come se avessimo “disimparato l’arte di patire il dolore”, incalza Byung-Chul Han. Questo perché il dolore necessita di essere comunicato, raccontato, descritto all’Altro. Si smarrisce uno spazio protettivo di natura narrativa e con esso anche la possibilità di un dolore simbolicamente attrezzato. Privi di protezione siamo alla mercé dell’assenza di senso, di coordinate culturali e linguistiche per comprenderlo. Come ricorda il Monsieur Teste di Paul Valéry, là dove il dolore comincia, s’interrompe la frase. Solo i puntini di sospensione rimandano alla sua presenza. 

Monsieur Teste tace dinanzi al dolore. Il dolore della lingua lo rapisce, distrugge il suo mondo e lo incapsula in un corpo muto. Non a caso, nelle psicoterapie il dolore è sintomo di un blocco nella storia di una persona. A causa di tale censura il paziente non è in grado di proseguire con la propria storia: siamo in presenza di parole sepolte, rimosse. La parola si fa concreta. Necessitiamo, allora, di rendere di nuovo fluida la storia vissuta.

Immaginate le mani quasi terapeutiche usate dai vostri nonni i cui movimenti inusuali davano l’impressione di raccontare una storia. Si emana un’energia curativa. Quella mano, che accarezza il vostro corpo scosso dalla febbre, scava un letto per il flusso della storia. È il dolore a far ingrossare il corso della narrazione in modo che finisca per portar via il dolore stesso. È il dolore a mettere in moto il racconto.

È, forse, per questo che in macchina, posiamo gli occhi sul volto della ragazza e l’impossibilità di articolare il linguaggio ci rende esausti e addolorati. Vorremmo raccontare un po’ della nostra vita. Eppure la censura persiste, impedisce il flusso.

Ma c’è anche un altro elemento da inserire nell’equazione: la certezza che non è necessario che il racconto straripi: quel silenzio non legato al chiacchiericcio ma al non avere nulla, ma proprio nulla, da dirsi. 

Lo sa benissimo Samuel Beckett

L’esser esausto per l’incapacità del linguaggio è la cifra stilistica delle sue ultime opere e delle pièces televisive. Come l’ubriaco aspira al penultimo bicchiere (quello della sazietà) e non all’ultimo (quella della perdita di coscienza), così i dannati di Beckett sono creature penultime di “giorni felici”. Penultime sono le posture dei personaggi, capaci di penultima felicità, penultima attesa, penultima disperazione. 

Nei testi televisivi di Beckett, il passo tra penultimo e ultimo è brevissimo e viene ogni volta compiuto nell’arco di una brevissima rappresentazione. Nello spettacolo teatrale Quad i corpi dei quattro personaggi, piccoli e magri, asessuati, incappucciati, hanno l’unica singolarità di partire ciascuno da un angolo come da un punto cardinale. Percorrono il quadrato seguendo ciascuno il suo particolare percorso in una direzione data. Si può sempre assegnare loro una luce, un colore, una percussione, un rumore di passi per distinguerli. Ma non c’è modo di definirli.

Tutto accade nel silenzio assordante del linguaggio. I personaggi si stancano visibilmente e i loro passi si fanno sempre più strascicati. Faticano secondo il numero delle esecuzioni possibili fino a esaurirsi completamente. Fino a divenire esausti, inermi. Ed è questa la grande metafora del silenzio e del dolore di non avere più nulla da raccontarsi.

È come non avere più nulla da dirsi. 

È come essere incistati nel presente.

È  come girare a vuoto. 

Il linguaggio ostruisce il desiderio di raccontarsi. Conta la postura, la posizione eretta, lo slancio del corpo, le cosce e le gambe tese. 

Allora è utile menzionare le parole di Deleuze che scrivendo il saggio su Beckett sentenziava:

“Io, l’idea che ho dell’amore è piuttosto quella di Beckett. Due tipi uno accanto all’altro che stanno lì e non hanno nulla da dirsi. […] Quel che conta in Beckett sono le “posture”. Chi si sdraia, sta ancora bene. Sdraiarsi è molto faticoso. Vi ricordo,infatti, che si muore seduti”.

Luigi Celardo

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Luigi Celardo

Uno dei primi ricordi di cui ho memoria è legato alla scelta del mio nome. Mia madre decise Luigi per il richiamo regale, per mio fratello scelse Teo. Insomma: Re e Dio (le aspettative erano basse!) Ho ereditato la follia familiare (non la megalomania, fortunatamente). Dopo una laurea in ingegneria delle telecomunicazioni, ho deciso di specializzarmi nella comunicazione umana in ogni sua forma (addio transistor e resistori!) Cerco di comprendere i segreti del linguaggio bazzicando romanzi post-moderni, saggi di sociologia, pellicole della Nouvelle Vague e serie-tv comiche.
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