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Non ho mai capito cosa provavo, fin quando non lo fotografavo

Ero poco più che bambina quando per la prima volta ti ho vista piangere guardando delle foto; mai prima di allora avevi permesso a qualcuno e in particolar modo a me di vederti triste, angosciata, disperata.

È in quell’esatto giorno che ho capito cosa volesse dire soffrire: veder soffrire te mi ha fatto sentire il vuoto assoluto nello stomaco.

Quando ti sei accorta che ti stavo guardando hai preso a strappare tutte le foto che avevi davanti; solo a lavoro finito mi hai permesso di guardare nel cestino: stropicciato, buttato era sempre il volto e il corpo di un uomo che io non riconoscevo, che tu volevi che io non riconoscessi. Solo ora ho capito quanto dolore hai voluto che io non provassi, solo ora ho capito quanto dolore mi hai risparmiato, Solo ora ho capito quanto tu mi amassi. 

Mi manchi, N. Eternamente, immensamente. 

Nell’era digitale e degli hard disk da 1 TB, sono ancora tra quelle persone che “sviluppa”, che stampa le fotografie. Che siano scattate con un cellulare, con una fotocamera professionale o con una kodak con rullino i miei momenti speciali hanno bisogno, come me, di essere messi su carta.

Non importa la qualità, se son venute bene, se riproducono un paesaggio visto e stravisto. Ciò che anima il mio cuore lascia tracce. In album, nei miei libri più cari, in cornici: ciò che fotografo ha vita, respira, canta, urla, sbatte le palpebre, esiste. 

Ed è così da sempre: non uscivo mai senza la mia kodak gialla e per me era preziosa come un diamante. Un fiore, una coccinella, un filo d’erba, un arcobaleno, una pozzanghera, una busta di mondezza, una latta di fagioli aperti, sorrisi, mani, un mucchio di terra, un asino, un auto, tutto era protagonista dei miei scatti.

Con gli anni ho imparato a fotografare anche me: i miei occhi color universo, le mie mani, le mie smagliature, le mie cosce, i miei piedi, le mie labbra, le mie lacrime. Solo un altro modo per affermare che anche io “esisto”. 

Esisto, e posso guardarmi, toccarmi, amarmi, lasciare memoria di me e della mia essenza. Ed è questo il fine ultimo dell’arte, no? Portar testimonianza della bellezza. Ed è questo l’obiettivo dei miei scatti: riportare la luce, anche se tutto attorno è buio, far ritrovare la speranza in un mondo di oblio.

A nulla è valso nell’arco dei mesi tentare di mantenere i ricordi solo sul formato digitale: sensazioni, emozioni, voci, odori uscivano fuori soltanto facendo scorrere le dita sui contorni delle stampe. Non sono materiali grezzi, bensì pezzi della nostra esistenza: il cuore e il cervello sanno. 

“Una cultura si costruisce attraverso il ricordo, ma anche attraverso la selezione dei ricordi”, disse Umberto Eco durante una sua lezione all’ONU dal titolo “Contro la perdita della memoria”. Ed è attraverso la cernita che ho costruito e tuttora costruisco ciò che sono: un corpo brulicante di emozioni. L’atto di strappare un foglio, di buttare una foto, di eliminare ciò che in quel momento reputiamo superfluo é una vera manna dal cielo, non solo per ciò che ci circonda, ma anche e soprattutto per ciò che abbiamo dentro. 

Il nostro corpo, nella sua interezza, ha bisogno di spazio per poter crescere, evolversi, maturare e migliorare e ha, altresì, bisogno di radici forti e di ricordi che possano fungere da punto di partenza

“Testa, occhio e cuore sullo stesso piano” (semicit. Henri Cartier Bresson) – non solo quando scattiamo, ma anche quando respiriamo e amiamo, e tocchiamo, e scriviamo, e facciamo defluire tutti i sensi su una fotografia.

Antonietta Della Femina

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Antonietta Della Femina

Classe ’95; laureata in scienze giuridiche, è giornalista pubblicista. Ha imparato prima a leggere e scrivere e poi a parlare. Alcuni i riconoscimenti e le pubblicazioni, anche internazionali. Ripete a sé e al mondo: “meglio un uccello libero, che un re prigioniero”. L’arte è la sua fuga dal mondo.
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