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Scuole Aborigene Residenziali: un crimine dimenticato

Tra le molte pagine oscure della Storia dell’Uomo, è nota a pochi la vicenda delle Scuole Residenziali per indigeni canadesi, un vero e proprio genocidio culturale attuato dal governo canadese sul finire del XIX secolo. 

Per quasi centoventi anni, circa centocinquantamila bambini indigeni furono separati dalle loro famiglie e collocati in queste scuole di “correzione”, istituite per cristianizzare e “civilizzare” i membri più giovani delle tribù nativo-canadesi, per lo più Métis e Inuit.

Nel 1876 il governo canadese, sotto la guida del Primo Ministro John A. MacDonald, approvò l’Indian Act, una legge che prevedeva il controllo, l’amministrazione e l’assimilazione della popolazione autoctona canadese.

Poco dopo, furono istituite le cosiddette Scuole Residenziali, veri e propri collegi, la cui gestione venne affidata ai membri del clero, coinvolgendo sia la Chiesa Cattolica canadese, sia la Chiesa Anglicana e la Chiesa Unita del Canada.

I bambini venivano prelevati con la forza presso le loro famiglie o addirittura rapiti dagli ufficiali del governo. I genitori che si opponevano all’entrata dei figli in queste scuole venivano prontamente arrestati.

Al loro arrivo nelle Scuole Residenziali nei bambini veniva cancellato ogni segno di appartenenza alle tribù aborigene, tagliate le lunghe trecce corvine, rimpiazzati gli abiti tradizionali con uniformi grigie dal taglio europeo; inoltre, non gli era permesso parlare nella propria lingua nativa né professare il proprio culto.

Le trasgressioni erano severamente punite con percosse e lavori forzati nelle fattorie, che peggioravano le già dure condizioni di vita, fatte di cibo scadente, ambienti privi di riscaldamento e ricorrenti abusi sessuali a opera della équipe scolastica.

La soppressione o sottomissione degli aborigeni fu una strategia precisa. Il Canada era allora una colonia da cui le madrepatrie, Gran Bretagna e Francia, ricavavano risorse. Il primo obiettivo era l’accesso ai fiumi, al legname, al mare e alle terre coltivabili.

Lo stato canadese doveva eliminare le popolazioni indigene in qualche modo e giustificare la loro scomparsa dai punti fertili, asserendo che si stavano estinguendo e che sarebbe stato meglio assimilarli nella società occidentale. Le Scuole Residenziali, dunque, venivano presentate come l’occasione ideale per integrare le popolazioni native nella società, estranea alle pratiche “barbare e inaccettabili”. 

Lunga e rilevante fu la polemica storiografica e popolare che scaturì agli inizi del Novecento per le condizioni vissute dagli studenti nelle Scuole Residenziali. Nel 1907 il quotidiano Montreal Star rese noto che il 42% dei bambini moriva prima del compimento dei 16 anni, definendo la situazione una “vergogna nazionale”.

E grande risonanza ebbe nel 1922 la pubblicazione del libro di Peter Bryce – medico, scrittore e spia canadese, funzionario del dipartimento della Salute dell’Ontario, in Canada – “The Story of a National Crime: Being a Record of the Health Conditions of the Indians of Canada from 1904 to 1921” che mise all’attenzione del mondo il genocidio culturale perpetrato ai danni degli indigeni canadesi e la crudeltà a loro rivolta, acquisendo via via maggiore consenso da parte del pubblico.

L’ultima Scuola Residenziale chiuse nel 1996, un tempo paurosamente vicino al nostro presente, se si pensa alle condizioni di vita pessime e alla condotta disdicevole delle persone che lavoravano in queste strutture, in un paese come il Canada, che figura oggigiorno tra i paesi più vivibili del pianeta.

Tardive le scuse pubbliche del governo canadese, offerte soltanto l’11 giugno 2008 dall’allora Primo Ministro Stephen Harper e dai leader degli altri partiti federali nella Camera dei Comuni canadese. 

Nove giorni prima venne istituita la Commissione Verità e Riconciliazione delle Scuole Residenziali aborigene per scoprire e denunciare i fatti. La Commissione ha raccolto le dichiarazioni dei sopravvissuti attraverso incontri istituzionali, testimonianze e foto che sono ora archiviate e disponibili, in caso di consenso del testimone, alla fruizione del pubblico.

La Commissione stabilì che a ogni sopravvissuto spettasse un risarcimento di 10.000 dollari per il primo anno e 3000 per ogni anno successivo. Alle vittime di stupro venne destinata una compensazione maggiore. Comunque sia, cifre irrisorie, se si considerano i danni di natura psicologica creati: molti sopravvissuti hanno dimostrato una palese incapacità di stabilire relazioni interpersonali, psicosi, alcolismo, disoccupazione, incapacità di essere buoni genitori. Queste sono cose, purtroppo, a cui nessuna cifra in denaro può rimediare.

Claudia Moschetti

Vedi anche: Sweet Country, la rivendicazione aborigena a colpi di western

Claudia Moschetti

Claudia Moschetti (Napoli, 1991) è laureata in Filologia Moderna. Ha insegnato italiano a ragazzi stranieri e scritto per un sito universitario. È attualmente recensora presso il blog letterario Il Lettore Medio e redattrice per il magazine La Testata. Dal 2015 al 2021 ha collaborato alla fiera del libro gratuita Ricomincio dai libri, di cui è stata anche organizzatrice.

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