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Sweet Country, la rivendicazione aborigena a colpi di western

Arriva sulla piattaforma Amazon Prime una delle pellicole più interessanti e di inedita narrazione degli ultimi anni.

Sweet Country, racconta una storia di rivalsa razziale, di ambientazione western, ma attraverso la rara luce che punta sullo schiavismo aborigeno.

La 102 Distribution mette in vetrina questo film recente (2017), presentato anche alla mostra del cinema di Venezia, con gli occhi spalancati sulla “versione della storia” dal punto di vista australiano, con protagonisti alcuni tra più importanti attori di questa iconica terra come Sam Neill e Bryan Brown, nei panni del tranquillo terriero Sam e del rigido sergente Fletcher.

Non mancano anche attori originari aborigeni come Hamilton Morris nei panni di Sam e Tremayne Trevorn Doolan in quelli di Philomac.

L’importanza del film, oltre che nella raffinatezza a tratti cruda del girato, sta proprio nel porre la questione su scenari spesso mai affrontati.

Se infatti il genere, legato al vecchio west, spesso ci aveva posto la riflessione sulle avversità razziali dapprima tra americani “bianchi” e indiani originari americani, o in uno stigma socio-razziale tra nordisti e sudisti americani legati allo schiavismo afroamericano, quasi mai aveva posto il punto sulla repressione delle popolazioni originarie australiane.

L’accento sulla durezza della vicenda è dato proprio dalla veridicità della storia, quella dell’omicidio di un bianco da parte dell’aborigeno Wilaberta Jack, arrestato e processato negli anni Venti. La storia si snoda proprio in quegli anni e culmina con l’episodio di un’uccisone, di quelle che all’epoca non permettevano l’attenuante della legittima difesa per un aborigeno considerato schiavo succube alla razza bianca e costretto alla fuga prima del processo di difesa.

Il regista Warwick Thornton , anch’egli originario aborigeno, disegna attraverso la canonicità di un genere, il western, la ragion d’essere di un paese che nella sua oscura vicenda ha avuto poco risalto cinematografico.

Un paese che vuole raccontare nella sua amara esperienza di una lontana epoca la sempre attuale battaglia di precari equilibri multietnici nella fondamentale crescita storico-sociale di una nazione e tenta farlo attraverso un film, Sweet Country appunto, che racconta una storia attraverso la bellezza di una pellicola capace di tramutarsi in sapienti immagini.

Ottima è infatti la regia e il montaggio che si evolve tra passaggi di macchine sulle lande di una iconica terra rossa, fatta di lande di sale e sabbia, di rocce e cieli immensi. Si alternano paesaggi mozzafiato, come la meravigliosa catena montuosa delle MacDonnell Ranges, a inquadrature più strette, come le pieghe del viso dei protagonisti lungo la fondamentale alternanza di dialoghi e silenzi. I flashback e flashforward riescono a collegare un’emotività coniugata al presente. 

L’accento si pone ancora una volta sulla longevità della battaglia sociale legata al colore di razza, sulla denuncia di certe reiterate e reticenti cognizioni della natura umana da denunciare.

Un film che riesce a guidarci e intrattenerci nella sua sostenuta cavalcata narrativa ma capace anche di far emergere una riflessione che mantiene sempre la sua centralità di dibattito anche sul presente.

Claudio Palumbo

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Claudio Palumbo

Mi chiamo Claudio, classe “non” di ferro 1989. Se dovessi descrivere il grosso contenitore attitudinale della mia vita sarebbe quello con il post it “feticista della cultura pop e contemporanea”. A cucire con filo i tanti tessuti di uno stesso vestito è la scrittura, redazionista per diversi web magazine, ufficio stampa e versi folli e sciolti.

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