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The Umbrella Academy: non proprio la fine del mondo

Vi racconto una storia breve e triste.

Quella di una ragazza, che non è più una ragazza, che si fidava dell’algoritmo di Netflix e poi si è imbattuta in The Umbrella Academy.

Avete presente quella sensazione che vi pervade appena cominciate una nuova serie?

Avete presente quel misto di aspettative, noia e allo stesso tempo interesse che vi spinge a continuare a guardare le prime puntate in attesa che la serie si apra, che la trama si infittisca prima e si dipani poi, che i personaggi si rivelino nei loro caratteri e nelle loro intenzioni? Bene! Questo mix di sensazioni vi accompagna fedele in tutte le puntate delle 2 stagioni di The Umbrella Academy.

La verità è che The Umbrella Academy, la serie ideata da Steve Blackman e ispirata all’omonimo fumetto di Gerard Way e Gabriel Bà, è quella serie che ti promette grandi cose, ti suscita enormi aspettative e poi irrimediabilmente ti delude.

L’idea è buona, non originalissima, ma buona: sette ragazzi nati, senza concepimento, con dei superpoteri e adottati dal miliardario Reginald Hargreeves, che farà di loro una squadra di supereroi scoppiati e dalle vite irrisolte.

I sette fratelli si ritrovano dopo anni di lontananza da casa per i funerali di un padre arido e impermeabile ad ogni trasporto affettivo. Quello che non sanno è che la morte del padre è solo l’ultima delle missioni impossibili che lui ha assegnato alla sua accademia di supereroi: salvare lumanità dallapocalisse prevista per un futuro più che prossimo.

A partire da questo momento di consapevolezza, che avviene all’incirca tra la seconda e la terza puntata, c’è il nulla cosmico. I reali poteri dei sette fratelli non si manifestano mai realmente; la crosta di infelicità che rende le loro vite tristi si intuisce ma non si indaga mai fino in fondo; i supereroi sono persone che a malapena riescono a proteggere se stessi, figuriamoci il mondo intero; una costellazione di personaggi secondari popola la serie senza apparenti ragioni di natura narratologica; i legami di fratellanza tra i sette protagonisti sembrano intermittenti o in alcuni casi inesistenti.

Ma quello che più infastidisce e impedisce un reale godimento della serie è l’uso completamente sballato dei luoghi e dei tempi della narrazione. È chiaro che nessuno spettatore si aspetti la ligia osservanza delle 3 unità aristoteliche, ma un legittimo disorientamento ti assale quando i sette personaggi principali, di per sé già troppi per i miei gusti, si muovono instancabilmente in un continuo andirivieni dalla casa paterna, in uno snervante spostamento che non ha alcun senso né logico né cronologico.

Ora voi vi chiederete perché vedere le due stagioni di The Umbrella Academy dopo questa pessima recensione. Le ragioni sono svariate: prima fra tutte è la totale inaffidabilità del mio parere. Altre ragioni possono essere la bellezza dei costumi e delle atmosfere, il caschetto stilosissimo di Cha- Cha, alias Mary J. Blige, la bellezza e il caotico candore di Klaus Hargreeves, interpretato stupendamente da Robert Sheehan, la fascinosissima e cazzutissima intelligenza di Numero cinque, la rassicurante notizia che Kate Walsh si sia liberata di quell’alone di sfiga che la perseguitava in Grey’s Anatomy .

Mettiamola così: vale la pena guardarlo solo per capire se è ancora il caso di fidarsi delle mie recensioni!

Valentina Siano

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La Redazione

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