Gli espulsi di Edgar Borges per Inknot editore

Andiamo a scuola! – propose l’allievo.
Il professore lo osservò con sarcasmo.
Mi piace il tuo senso di responsabilità, allievo Andreu – affermò l’uomo.
E hai ragione, è ora di riprendere il secondo quaderno di matematica.
Senso di responsabilità, senso di ribellione, senso di repulsione: sono i moti emotivi che agitano l’azione drammaturgica dei personaggi dell’ultimo romanzo di Edgar Borges: “Gli espulsi” (Inknot Editore), sezione narrativa straniera.
L’innesco narrativo è un’espulsione, inizialmente non forzata, di tre bambini feriti sul piano emotivo che, smarriti, intraprendono un itinerario fatto di spazi fisici privi di consistenza materiale. Eppure, sembrano allegri, selvaggi, equipaggiati con razzi di cartapesta, coltellini nascosti tra i denti, e bandane da pirata a proteggere la fronte dalla luce cocente di autostrade sconfinate.
Non si sa da cosa fuggono, né le cause profonde, traumatiche e familiari.
Fuggono tenendosi per mano.
Corrono attraverso un itinerario composto da tappe idealtipiche: Scuola, Discoteca, Caffetteria, Falò, Piazza fino all’ultima stazione: il Bosco. Tra le fronde, lo smarrimento si fa presenza evaporata, le tracce degli scarponi sul pantano sfumano e si esce dal sentiero, per essere espulsi definitivamente dalla realtà empiricamente consolidata.
Sara, Andreu e Marta non vengono cercati da nessuno, e gli adulti provano a razionalizzare la loro scomparsa – una setta straniera li ha rapiti, sono stati abusati sessualmente da parenti miserabili – incardinando la fuga in un discorso intorno ad un’espulsione da un luogo affettivo o dal paradiso terrestre.
Lo scrittore di Caracas, classe ’66, traduce narrativamente l’incomunicabilità tra le tenere e, a volte violente, velleità dei bambini e i discorsi razionali degli adulti.
Qual è il peso specifico dell’espulsione dall’infanzia?
Cosa si perde nell’interiorizzare quel senso di responsabilità, ribellione, e rassegnazione che sancisce la transizione verso la maturità emotiva?
Come suggerisce il traduttore del romanzo, il sociologo Gianfranco Pecchinenda, raggiungeremo mai la levatura desiderata di quel bambino che un tempo ci sognava con il suo sguardo?
I dialoghi si capovolgono, nella misura in cui la distanza ontologica tra i bambini e gli adulti si materializza in un’isteria del linguaggio.
Nella tappa della Scuola, Andreu corre intorno all’edificio senza forma. Nel romanzo, nessuno spazio ha pareti materiali: sono segni, luoghi ideali tratteggiati con vernice bianca come in “Dogville” di Lars Von Trier.
Il professore imbastisce una conversazione sul senso dei numeri primi, e sulle operazioni matematiche elementari:
- Qual è il valore del numero sottolineato?
9063
- Nessuno
- Il 14 è un numero primo?
- Sì.
- Qual è il massimo comun divisore tra 4 e 6?
E via discorrendo, in un’arringa in cui l’allievo deve misurarsi con un linguaggio diverso che corrisponde ad un altro piano di realtà: l’astrazione matematica e le sue regole.
Analogamente il Dj, l’adulto della Discoteca, viene incalzato dai tre bambini a riprodurre in costante ripetizione alcune canzoni celebri di David Bowie come “Starman”. Il testo della canzone è trascritto, inciso su carta, a ricordare la resistenza dei sogni d’infanzia che volano su, luminosi, incastonati tra le costellazioni di stelle. Eccolo in nuovo linguaggio: il suono poetico.
È questa l’operazione che regge la fabula intricata del romanzo: una messa in scena di giochi linguistici, usando un’espressione del filosofo Wittgenstein nel “Tractatus logico-philosophicus”. Ogni adulto interiorizza le norme culturali apprese e traduce la propria consapevolezza in uno specifico gioco linguistico; i bambini invece non hanno ancora scelto a quale realtà aderire. Così imputiamo ai bambini scherzi linguistici, metafore grossolane, o il “Trasto Plop” di Andrieu, suono onomatopeico ripetuto quando è in difficoltà.
Qual è il segreto per guardare negli occhi il bambino che siamo stati senza sprofondare in una crisi identitaria o, peggio ancora, osservando il tempo che scorre?
Forse, suggerisce l’autore, è la possibilità d’aderire ai giochi linguistici più disparati, resistere all’espulsione forzata di un linguaggio codificato in modo univoco che sia politico, filosofico, artistico o burocratico: trattenere la complessità. Ciò non significa rendere più gravosa l’esperienza umana, ma sollevarla dai drammi quotidiani.
Ridimensionare l’espulsione traumatica per poi organizzarsi, dialogare, supportare e costruire nuovi spazi ibridi dove confluiscono empatia e affetto reciproco.
Quando inventiamo nuovi schemi, come lampadine che si accendono in serie, ci sentiamo “elettrizzati come un bambino!”.
A ciò va aggiunto uno degli effetti immediati che emergono dall’orgoglio narcisistico che comporta il processo di individualizzazione: la straordinaria responsabilità dei singoli nell’aderire ai principi tramandati da generazioni e generazioni.
Spetta al singolo il carico della propria condotta personale, e questa responsabilità è difficile da sopportare, almeno per tutti, e suscita automaticamente un intenso bisogno di comunità o associazioni a cui delegare il peso della scelta. In questa dialettica, la forza esistenziale è situata nella resistenza da un’espulsione desiderata e dal rifiuto di una individualizzazione forzata. Come se vi fosse, collettivamente, un desiderio regressivo di annullare la separazione che l’essere individuo, adulto e maturo, comporta.
Da una parte l’orgoglio della riappropriazione della propria esistenza che va autonomamente gestita, dall’altra la percezione di “essere gettato” in un mondo di cui si sono perse le coordinate.
In questo senso, lo stile narrativo di Borges si traduce in mero e proprio strumento euristico: tentare di moltiplicare i piani del linguaggio, dove ogni segno rimanda a un nuovo significante.
Borges prova a insegnarci che la finzione è un vero e proprio strumento evolutivo e che solo in virtù di tale trasfigurazione si può sospendere il giudizio sul mondo e maturare preservando l’unità bambino-adulto.
Non a caso, Il Bosco è metafora dell’ultimo smarrimento, il punto terminale in cui si raggiunge nuovamente il paradiso perduto dove ritrovare la propria ombra e sentirsi vivo:
“Andreu corse in linea retta; procedendo a zig-zag per schivare i proiettili, consapevole che solo correndo frontalmente avrebbe potuto realizzare la trasfigurazione. Durante il tragitto osservava il simulacro di universo creato dai suoi carcerieri; cercava una crepa nel soffitto o un segno di nitidezza alla fine del cammino. Sapeva che ormai non c’era più un razzo, né un drago. Aveva perso la casa, ora doveva trovare la luce; recuperare la sua ombra”.
Luigi Celardo