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La voce di Kabul è muta, ma noi siamo sordi

È passato poco più di un anno dall’agosto 2021, momento in cui le forze internazionali hanno lasciato, per alcuni, abbandonato, l’Afghanistan, permettendo così l’instaurazione del ‘nuovo’ vecchio governo.

Abbiamo superato i 365 giorni e se ne parla sempre meno.

È vietato pubblicare articoli sui talebani senza autorizzazione, ma di concedere autorizzazioni non ne ha voglia nessuno. Se i media non possono parlare di quanto accade nel paese, allora non si può parlare di nulla. Infatti non se ne parla.

C’è chi ha tentato però, e ne ha pagato le conseguenze.

Penso a Nematullah Naqdi, cameraman di 28 anni, e Taqi Daryabi, fotoreporter di 22, due giornalisti del quotidiano afghano Etilaat Roz che, a pochi giorni dall’instaurazione del ‘nuovo’ governo, stavano documentando una manifestazione di donne che protestavano per i loro diritti davanti a un commissariato di Kabul.

Minacciati, poi privati della loro attrezzatura, trascinati dentro quello stesso commissariato e picchiati, per ore. Poi rilasciati. Sul loro corpo, gli ematomi, i segni delle fruste e dei cavi elettrici, le contusioni lasciate dalle canne dei fucili. Rilasciati, senza riuscire a camminare autonomamente. Rilasciati, dopo che “altri uomini” avevano tentato di privarli della dignità, della parola e della vita.

Con i volti gonfi, i due giovani si erano mostrati sui social, feriti e mal ridotti, specchio della città che li respinge.

Le domande rimaste in sospeso non sono poche, ma le possiamo riassumere in due. Che succede in quel pezzo di terra oggi? E perché sembra non interessare più a nessuno?

Strano ma vero, è più facile rispondere al secondo interrogativo piuttosto che al primo, quindi sconvolgiamo l’ordine e cominciamo da lì.

Non è vero che non interessa a nessuno. Interessa ancora, e molto.

Interessa alle Nazioni Unite che continuano a monitorare la situazione del Paese, anche se non sembra; interessa agli Stati ricchi, per motivi probabilmente meno etici, ma comunque da considerare; interessa ai media, nazionali e non; interessa ai giornalisti, ai reporter, ai fotografi, ai videomaker, a tutti coloro che fanno della comunicazione il proprio mestiere. Più gli interessa e meno se ne parla.

Interessa all’uomo in quanto tale che, se dotato di coscienza, non può voltarsi altrove. Eppure lo fa.

Ma soprattutto interessa ai talebani, tanto da spingerli a fare di questo interesse una missione, una riconquista del passato, una crociata i cui punti cardine sono le armi, l’oppressione e il silenzio.

Il 15 agosto dell’anno scorso i talebani hanno ripreso il potere stravolgendo la vita dei cittadini e cancellando ogni diritto. Nei primissimi giorni del loro insediamento a Kabul, molti media hanno dovuto ricorrere all’autocensura, smettendo di pubblicare inchieste e rivedendo l’intera programmazione televisiva.

Le proteste nel Paese sono scoppiate a seguito dell’annuncio con cui i talebani hanno comunicato l’instaurazione di un governo di radicali, composto esclusivamente da sostenitori del gruppo, tutti uomini, nessuna donna.

Cerchiamo, allora, di rispondere alla prima domanda.

Oggi il Paese soffre a causa della crisi economica che lo devasta, della povertà, degli altissimi livelli di disoccupazione, della criminalità dilagante e della mancanza di beni e servizi di prima necessità.

Gli ospedali continuano a essere pieni e non sono mai cessati gli attentati nella capitale, generalmente ai danni di luoghi di culto e istruzione. Troppo spesso il numero delle vittime mette i brividi. E quando non è il numero a mettere paura, ci pensa l’età: più della metà sono bambini.

Non esiste riposo, da quell’agosto del 2021, solo promesse infrante e terrore.

Le agitazioni da parte della popolazione continuano, ma il regime impone. E davanti a un regime che impone, non c’è dialogo, non c’è confronto, e presto finisce per non esserci neppure speranza.

Quello che invece c’è è la privazione di qualsiasi libertà, a partire da quella di stampa. Avevamo dubbi?

Sarebbe banale dire che la parola è lo strumento più forte che esista. Non lo è. La parola è forte quando la si può utilizzare. Troppe volte è più forte il silenzio.

Oltre cento giornali hanno chiuso le loro redazioni, più di 7.000 operatori dell’informazione rimasti senza lavoro. Il numero delle giornaliste, ora messe da parte, si è cessato di contare molto presto. Alcune però stanno resistendo, nonostante i rischi, spesso più che per volontà, per necessità economiche. Più della paura può la fame.

In particolar modo le donne, violate, minacciate, castigate, nascoste, rinchiuse, oscurate e deprivate, si sono fatte portavoce di una situazione drammatica e non hanno intenzione di mollare la presa sui diritti ottenuti.

Me l’ha detto mia nonna, proprio qualche giorno fa, che noi donne siamo abituate alla lotta, perché troppo spesso non ci è stata data altra possibilità.

Lo strumento più forte non è la parola, è il coraggio. E la fortuna è averne abbastanza da riuscire a farsi ascoltare.

Nematullah e Taqi non sono gli unici coraggiosi: molte sono state le testimonianze di giornalisti locali che hanno raccontato episodi di violenza e sopruso: sequestri di macchine fotografiche, percosse, arresti, abusi e vessazioni costanti.

In Afghanistan ci sono esplosioni, urla, risse, lotte, eppure tutto tace. Non c’è parola, non c’è immagine, non c’è narrazione né testimonianza.

Tutte le proteste sono considerate illegali. Anche riportare notizie lo è. Così, giorno dopo giorno, muore l’informazione. I talebani le hanno tolto la voce.

E la guerra continua a non dare tregua. Ma è così facile far finta di non sentire, che alla fine ci si convince di non aver sentito nulla davvero, anche se a un passo da noi continuano a gridare.

Stefania Malerba

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Stefania Malerba

Sono Stefania e ho poche altre certezze. Mi piace l’aria che si respira al mare, il vento sulla faccia, perdermi in strade conosciute e cambiare spesso idea. Nel tempo libero imbratto fogli di carta, con parole e macchie variopinte, e guardo molto il cielo.
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