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Tra umano e divino: Domenico Sepe e la sua Napoli di bronzo

Dal “Cristo Rivelato” al “Diego Armando Maradona” posto nei pressi dello stadio omonimo.

Scopriamo chi è Domenico Sepe, come nascono le sue opere e quali sono i suoi progetti futuri.

Non solo dare corpo, ma anche anima alle proprie opere: questo è uno dei tanti obiettivi che si pone Domenico Sepe nello scolpire le sue figure di bronzo (e non solo).

Artista ambizioso, pieno di idee e talento, parla oggi ai lettori de La Testata di sé e della sua infinita passione per il proprio lavoro. Passione che ha mostrato anche a me, che lo intervistavo, attraverso un piccolo tour a distanza del proprio studio.

Durante l’intervista sono emersi chiaramente l’amore che da sempre nutre per ciò che fa, l’accuratezza e la dedizione nello studio di un’opera, che non è altro se non il prodotto finale di un processo creativo complesso, che può richiedere anche anni di lavoro.

Come e quando è nata la tua voglia di creare arte attraverso la scultura?

«La voglia di scolpire nasce quando ero bambino. Andando con mio nonno in campagna, giocavo con il fango e creavo da questo delle forme. Da lì ho imparato ad amare la terra. Poi ho visto che gli scultori utilizzavano l’argilla per modellare, soprattutto quelli greci. Ho fatto un viaggio proprio in Grecia a 12 anni, dove ho scoperto che dall’argilla si poteva creare una scultura in bronzo, così è nato il mio amore per la plasticità, per questo metodo di realizzazione delle opere: modellare l’argilla e poi trasformare questo materiale effimero in qualcosa di eterno.»

Quali sono i motivi tecnici che ti portano ad utilizzare questi materiali piuttosto che altri?

«Ci sono un motivo concettuale e un motivo tecnico. Il motivo tecnico è quello che il bronzo, essendo una lega di rame e stagno, non arrugginisce e ha una tenuta che può essere considerata realmente “eterna”. Il vuoto del bronzo, in più, è la parte che concettualmente custodisce l’anima, la parte spirituale dell’opera. Poi c’è anche l’effetto della luce che cambia in base a dove viene posizionata l’opera. Questi concetti legati al bronzo sono quelli che più mi hanno affascinato.»

Le tue opere quindi sono vive, hanno un’anima propria?

«Ogni mia opera nasce con quell’idea, di trasferire un’anima all’interno di ciò che creo. Inoltre, essendo figurative, le espressioni di gioia, melanconia, mi consentono anche di far emozionare chi guarda quel volto. O almeno lo spero, questo è il mio intento.»

Quale tecnica prediligi per scolpire le tue figure?

«Per quanto riguarda il bronzo, modello prima l’argilla e poi utilizzo la tecnica della fusione a cera persa, tecnica antichissima che appunto utilizzavano i greci. Quindi non mi sono mai scollegato da questo. Anche se nella mia esperienza personale si possono contare diverse statue e busti in marmo, è il bronzo il materiale che sento più mio, dunque lo utilizzo per la maggior parte delle mie opere.»

I tuoi modelli, dunque, sono principalmente gli antichi greci?

«Sì, anche da un punto di vista di concetto dell’opera. Quella bellezza ideale che i greci cercavano di ricreare è la stessa che intendo trasferire nelle mie figure, anche quelle che si ispirano a personaggi reali. Poi mi rifaccio sicuramente al percorso di Vincenzo Gemito, uno dei miei scultori preferiti, al quale ho anche dedicato un busto.»

Le tue figure reali sono quindi sempre ideali? Anche quella di Maradona?

«La scultura di Maradona, popolare nell’immagine, nell’aspetto (c’è un’iconografia ben precisa, convenzionale), è stata una lotta molto dura con me stesso. Non potevo creare una maschera, ho concepito quell’immagine rispettando il mio percorso: nella mia mente era un atleta quello da rappresentare, di cui mettere in risalto la fisicità, quasi come se fosse un dio greco. Poi durante lo studio anatomico della sua figura, ho scoperto che Maradona non aveva solo la bravura dalla sua parte, ma una forza esplosiva enorme: questo gli permetteva di superare l’avversario fisicamente oltre che col suo genio creativo.»

Foto di Matteo Chiacchio

Qual è il tuo rapporto con Napoli e la napoletanità?

«Napoli è la mia culla, è la mia fonte di ispirazione. Ci sono stati grandi maestri nell’arte napoletana, come Gemito (citato prima) o il pittore Giacinto Gigante. Avrei potuto scegliere percorsi diversi, ma la mia città è quella che mi contamina tuttora. Tanto che sono portato ogni quattro o cinque anni a realizzare dei corni. Anche i materiali che utilizzo, come la ceramica di Capodimonte, la pietra lavica, il bronzo stesso rievocano Napoli. Il mio rapporto con questa città è totale, dunque anche molti dei miei soggetti sono direttamente ispirati a lei.»

Che rapporto hai con Sant’Anna dei Lombardi? Cosa la lega alla tua “Napoli rivelata”?

«Nel “Compianto sul Cristo morto” presente a Sant’Anna ho trovato un’ispirazione forte. L’espressione di drammaticità di una Napoli che si rivela nel suo dramma, che nasce come donna straordinaria e meravigliosa, e poi si riscopre in un momento di grande difficoltà e contrasto, trae origine proprio dal “Compianto”. Quello che ripropongo nella mia scultura è la stessa drammaticità che sta nel momento della consapevolezza della morte

Dopo aver realizzato negli ultimi anni lavori per le città di Sanremo (“Vittoria alata”) e Matera (“La fontana dell’amore”), aver esposto a Napoli con la mostra “La materia e l’eterno” e pubblicato il suo catalogo nel 2021, Domenico Sepe ha tra i suoi progetti per il futuro anche quello di creare un’opera dedicata alla “sua Partenope” e che la rappresenti in una forma diversa dal solito. Nell’attesa (si spera) potremo godere presto di una nuova esposizione delle sue opere.

Foto di Giovanni Allocca

Elena Di Girolamo

Fonti Foto: Domenico Sepe

Leggi anche: Vincenzo Gemito. Dalla scultura al disegno: il maestro torna a casa 

Elena Di Girolamo

(Madda)Elena Di Girolamo, classe ’96, si laurea troppo presto in Filologia Moderna, quando non sa ancora spiegare alla nonna a cosa servono i suoi studi. A mangiare è troppo lenta, ma è ingorda di libri, musica, fumetti, film e serie tv. Oscilla tra la convinzione di poter scrivere un best seller e la consapevolezza che mettere “leadership: 10” sul CV non le farà avere un posto da manager in Mondadori.
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