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Quanto ci è costato romanticizzare le paranze

Ha ispirato le pellicole più famose della storia del cinema, la malavita e il suo rovescio, i buoni contro i cattivi, i meccanismi che la azionano e la ricerca di soluzioni ad una piaga sociale che annovera, tra i suoi fautori e vittime, sempre più giovanissimi.

Si è discusso a lungo e si discute tutt’oggi se sia lecito o meno parlare di strade sbagliate, scelte errate e contesti propizi al proliferare delle bande criminali composte da ragazzi sempre più giovani.

Se da un lato si sta cercando di promuovere l’educazione alla legalità, dall’altro è possibile notare quanto sia difficile sradicare una mentalità ormai ben salda in determinati contesti sociali.

Risale a qualche anno fa, precisamente al 2018, un docu-film che racconta, attraverso le parole della giovanissima vedova Mariarka Savarese, l’ascesa e la morte precoce di Emanuele Sibillo (Es17), capo della “paranza dei bambini” di Napoli, morto a soli diciannove anni a causa di un colpo di arma da fuoco alle spalle.

“Es17, Dio non manderà nessuno a salvarci”, è questo il titolo del documentario che ci mostra un ragazzo talentuoso e brillante, che parla bene e scrive anche meglio, figlio di una famiglia appartenente al sotto-proletariato del centro storico di Napoli, che ha deciso di darsi alla vita criminale.

La storia di Emanuele è la storia di tanti ragazzi che appartengono a contesti sociali ben connotati, ma cosa ancora più preoccupante è che è la storia che tanti giovani inseguono, inneggiano e santificano.

Dalla celebrazione all’emulazione il passo è breve, sappiamo infatti che morta una paranza ne nasce subito un’altra. L’emulazione avviene anche per vie traverse; sulla piattaforma social Tik Tok riportano sempre più visualizzazioni i lip sync, labbra di ragazzine sincronizzate alle parole di Mariarka, parole che ascoltiamo nel documentario con nessun intento celebrativo o giustificazionista nei confronti dello stile di vita del compagno, parole di dolore e rabbia per un destino segnato, per una vita strappata dal grilletto di una pistola… ma che vengono prese a modello da tante ragazze.

“Se lui si fa venti, trent’anni di carcere, tu lo devi rispettare sempre”.

“Io provavo a fargli dei discorsi riguardo alla sua vita, alla vita che aveva scelto. Ma sai come si dice: chi nasce sotto ad una stella, non può morire sotto ad un’altra. Non potevo cambiarlo”.

La storia di Emanuele Sibillo è stata pian piano mitizzata. Una logica senza scampo vuole vedere in Sibillo l’eroe senza macchia e senza paura che continua a sopravvivere nel vuoto di riferimenti di un’intera generazione.

Quando Emanuele comincia a gestire i suoi traffici, i grandi boss sono tutti in prigione. C’è un vuoto di potere che i giovani cercano di occupare dando vita ad una stagione criminale in cui cambia il rapporto con gli adulti e a comandare sono i ragazzi delle cosiddette “paranze”.

Il termine paranza viene dal mare, si tratta di barche che vanno a caccia di pesci da ingannare con la luce. I pesci cercano questa luce e le danno fiducia, allo stesso modo, i ragazzini sono vittime di adolescenze “ingannate dalla luce”, dove il domani non esiste, dove le morti provocano altre morti e i soldi li ha chi se li prende.

Il carcere minorile e le comunità risultano essere nient’altro che dei palliativi. Nella maggior parte dei casi, chi vi entra ne esce senza aver scontato interamente la pena e, in una condizione ancora peggiore, ritorna a casa dalla stessa situazione familiare disfunzionale, spesso da genitori a loro volta inseguiti dalla giustizia.

Ed è qui che, ancora una volta, il vuoto di riferimenti viene riempito con la violenza e altri e nuovi Sibillo perdono la vita come in un triste loop.

Mentre lo stato indice processi infiniti, firma arresti su arresti, le paranze continuano a crescere e ragazzini, fino a qualche anno prima bambini che giocavano insieme sotto casa, si ritrovano a far parte di schieramenti opposti e alleanze ferree.

Quando la luce della paranza si spegne, i pesci vengono sollevati dalle reti. Non vedono più la luce. Boccheggiano. Lasciano definitivamente il mare.

Sempre.

La metafora della paranza spiega al meglio quanto la ricerca spasmodica della luce, di un posto nel mondo che molto spesso diventa un vuoto, sia una pura e semplice illusione. Romanticizzare il disagio sociale perché non si conosce altro resta un campanello d’allarme non abbastanza compreso, dunque è chiaro che fino a quando la mitizzazione dello stile di vita criminale non verrà arginata e, magari, orientata verso esempi legalitari, non utopici, ma vicini alle realtà difficili, la luce continuerà ad accecare.

Catia Bufano

Vedi anche: Come gli scrittori sbarcavano il lunario – Conoscevi gli “altri” mestieri?

Catia Bufano

Laureata in Lettere Moderne, studia attualmente Filologia Moderna presso l’università di Napoli Federico II. Redattrice per La Testata e capo della sezione Fotografia. Ama scrivere, compratrice compulsiva di scarpe, non vive senza caffè. Il suo spirito guida è Carrie Bradshaw, ma forse si era già capito.

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