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Afantasia – Immagina, non puoi

In una vecchia pubblicità, la voce calda di George Clooney recitava: «Immagina, puoi». Un motto sensazionalistico all’apparenza incontestabile, ma che contiene un intoppo nel verbo modale “potere”.

E se io non sapessi cosa significa immaginare, se non potessi farlo pur volendo? 

Vi ripongo la domanda: siamo sicuri che tutti possano immaginare? Scommetto che a bruciapelo la risposta è affermativa. 

Cari lettori e lettrici preparatevi ad abbandonare una delle vostre incrollabili certezze, stiamo per parlare di afantasia.

L’afantasia, come rivela la parola stessa – costruita con un’alfa privativo – è la mancanza di fantasia. Quindi, se grazie alla capacità di fantasticare riusciamo ad andare oltre la realtà tangibile, rifugiandoci nel passato, nel futuro o in mondi altri, non avere fantasia significa non poter sognare né ricordare esperienze concrete e sensoriali né fare elucubrazioni mentali su qualsivoglia dimensione temporale. 

Non è una trovata fantascientifica di uno scrittore o di un regista, bensì una vera e propria condizione neurologica che descrive chi non è in grado di visualizzare immagini mentali.  

Era il 1880 quando lo studioso di statistica Francis Galton avviò un sondaggio in cui chiedeva ai gentiluomini inglesi di immaginare la propria colazione e descriverla dettagliatamente. Alcune persone del campione riscontrarono difficoltà nell’operazione fornendo immagini sbiadite e approssimative. Eppure tali soggetti conducevano una vita normale non compromessa da questo deficit, del quale tra l’altro erano inconsapevoli. Galton ipotizzò dunque che la capacità di immaginazione visiva non fosse univoca nel genere umano. 

La sua scoperta fu accantonata per un po’, finché intorno al 1970 alcuni neuroscienziati come Roger Shepard e Jacqueline Metzler ritornarono sulla questione. Fu ideato uno strumento di analisi quantitativa che consisteva in esercizi basati sulla rotazione mentale delle immagini di figure geometriche. Il risultato ottenuto lasciava concludere che gli “afantasiosi” utilizzassero strategie mentali alternative e che impiegassero tempistiche di risoluzione diverse dai “fantasiosi”. 

Gli studi sul fenomeno hanno subito un’accelerazione con le ricerche dell’università di Exeter, dirette dal neurologo Adam Zeman, e confluite nel 2015 in una pubblicazione sulla rivista Cortex, nella quale è comparso per la prima volta il termine “afantasia”. 

Nel 2003 un paziente di 65 anni si rivolse a Zeman perché dopo aver subito un intervento non riusciva più a ricordare volti e luoghi che prima gli erano familiari. Il neurologo e il suo gruppo avviarono delle indagini sul paziente e su altri volontari, basate su test e risonanze magnetiche. Si confermarono le intuizioni di Galton: i soggetti, nonostante non riuscissero a visualizzare immagini mentali, svolgevano ugualmente compiti che avrebbero richiesto l’ausilio di tale abilità, mostrando di ottenere gli stessi risultati dei “fantasiosi” solo che ciò avveniva per vie traverse. 

Il gruppo di ricercatori è giunto a importanti conclusioni:

  • Circa il 3% della popolazione è colpita da questo disturbo;
  • Si tratta di un’incapacità del sistema cerebrale di costruire modelli associativi legati a ciò che si vede, motivo per il quale si è parlato di “cecità psichica”;
  • L’afantasia condiziona qualsiasi funzione cognitiva che abbia una componente visiva sensoriale, per questo compromette anche la memoria, l’attività onirica, la creatività e il senso di orientamento;
  • Sembra esserci una correlazione con altre condizioni neurologiche quali la prosopagnosia (incapacità di riconoscere i volti) e la sinestesia (confusione degli stimoli sensoriali);

Inoltre, un nuovo studio dell’UNSW a Sidney ha dimostrato che le persone affette dalla patologia sono più difficili da spaventare con racconti dell’orrore e non amano leggere, proprio perché non riescono a visualizzare le storie davanti agli occhi. 

Nonostante il passo avanti compiuto, le cause precise sono ancora da accertare. Secondo il team di Zeman, possono essere plurime: motivi congeniti, malattie pregresse, traumi post interventi chirurgici.

Per quanto riguarda una possibile cura, la strada della ricerca è ancora lunga. Ci sono ancora tanti punti inesplorati da scandagliare. Tanto per cominciare, bisognerebbe effettuare indagini su larga scala ampliando il numero di soggetti analizzati. 

Sicuramente la risonanza magnetica funzionale (fMRI), che permette di visualizzare la mappa dell’attività cerebrale nell’esatto momento in cui si sta compiendo una determinata azione, è una tecnica funzionale. Questa è stata già impiegata da Zeman, il quale sostiene l’attendibilità delle sue tesi proprio su fondamento delle risonanze. Queste infatti mostrano nei soggetti “afantasiosi” il funzionamento di aree del cervello diverse rispetto a quelle di solito più attive durante la visualizzazione di immagini mentali.  

Di fatto la disfunzione non ha ripercussioni evidenti e fortemente limitanti in chi ne soffre, però non va per questo presa sotto gamba. È un pezzo mancante dell’individuo che genera malessere, frustrazione e inadeguatezza.  

Pensate banalmente a quante volte i cosiddetti “film mentali” ci salvano da una giornata no. L’umore è plumbeo come il temporale fuori e non vuole saperne di rasserenarsi, ma basta l’immagine di un volto amico, di un luogo sicuro, di un momento in cui siamo stati bene che magicamente il sole ricompare. 

O più semplicemente, pensate ai casi in cui la memoria e la creatività ci vengono in soccorso nelle necessità: come quando realizziamo schemi sinottici che ci aiutano a fissare le nozioni, anche attraverso la memoria visiva. 

Ecco, è il caso di dirlo, “immaginate” se questa facoltà vi venisse tolta.

Alcuni sostengono che in realtà non si tratti di una mancanza di fantasia, quanto di un modo anticonvenzionale di descrivere le immagini. D’altronde la possibilità che esistano capacità immaginifiche eterogenee non è da escludere. 

Il post ha riportato una testimonianza di Blake Ross, programmatore e cofondatore di Mozilla, che si è scoperto essere “afantasioso”. Questo per dirvi che se non avevate la minima idea di esserne affetti e ve ne siete resi conto leggendo questo articolo, non disperate e considerate che siete sulla stessa barca di uno dei creator dei servizi più tecnologici al mondo… altroché assenza di creatività! 

La complessità del nostro cervello non smette mai di stupirci.

Giusy D’Elia

Vedi anche: I misteri della mente: la sindrome di Capgras

Giusy D'Elia

Disordinata, ansiosa, testarda, logorroica… ma ho anche dei difetti. I pregi scoprili leggendo i miei articoli! Sono Giusy D’Elia, classe 1997. Studio Filologia moderna perché credo nel valore della cultura umanistica. Ho un mondo dentro che ha paura di uscire, ma La Testata mi sta aiutando a farlo esplodere! Sono la responsabile di Tiktok.

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