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“Dissolversi” per sentirsi meno soli: il sussurro di una generazione dissociata

La TV continua a registrare numeri, di malessere se n’è visto in giro, talvolta tanto ed è un periodo in cui siamo chiamati ad andare un po’ oltre i limiti per trovare la giusta misura in cui stare.

È forse un tempo sospeso il nostro, ma presente più che mai: è un tempo vissuto questo!

Essere giovani ai tempi di una pandemia è piuttosto difficile, aumenta lo stress, gli obiettivi sbiadiscono e diventano meno certi, non si ha voglia di progettare o forse non si trovano le forze concrete per metter su qualcosa – anche tu ti senti così? – non si riesce a mantenere un solo punto fermo.

Ci hanno detto di correre e finire gli studi al più presto e lo abbiamo fatto, ci hanno detto di crederci e lo abbiamo fatto, ci hanno detto di essere migliori di loro e lo siamo stati. Non è proprio andato tutto bene. A volte basta una pila, una sola pila messa nel verso sbagliato per tornare al buio.

Quanti momenti abbiamo sprecato invece di utilizzarli per far crescere i nostri progetti e nutrire le nostre ambizioni? Quante occasioni abbiamo rimandato a oltranza? Quante volte abbiamo preferito chiudere porte e finestre invece di respirare aria nuova? Tra le tante cose di cui la pandemia ci ha privato, forse abbiamo finalmente imparato ad apprezzare e valorizzare il tempo.

Anche Francesca e Angelo hanno imparato a sfruttare il tempo in maniera alternativa. Lui videomaker emergente laureato all’Accademia di Belle Arti, lei attrice emergente del “Teatro Popolare” all’ex OPG di Napoli.

Entrambi fermi nell’attesa che tutto riparta, che l’arte torni a cullarci, dissociati, svuotati di quella voglia di fare che dovrebbe assalirti quando hai poco meno di trent’anni. Ma Angelo e Francesca si sono guardati e si sono riscoperti, uno nelle insicurezze dell’altro, ri-trovati e plasmati tra le luci e le ombre di un progetto chiamato Dissolversi.

Disagi, the, certezze assolute, fermate della metro, dissolvenze e occhi assenti, sono alcune delle cose di cui provano a parlare. Di cui tutti noi giovani siamo costretti a parlare da troppo tempo.

Io, Angelo e Francesca li conosco e qualcosa da raccontarmi sapevo l’avrebbero avuta.

Ciao ragazzi!

L’intento da voi dichiarato era quello di far rivivere la sensazione di un approccio di palco seppur in una dimensione digitale, quanto è difficile come compito? In considerazione di una generazione che, anche grazie a questo “allontanamento forzato dalle scene”, rischia di allontanarsi da una forma originale e pura di contatto come quella del teatro a fronte di un imperversare di intrattenimento digitale (che dai concerti alla stand-up comedian sembra voler commercializzare anche quella sensazione aurea di velluto e doghe di legno).

«Ciao!

Digitalizzare un’opera teatrale non è un compito semplice. Si rischia di far perdere quell’empatia che si viene a creare fra l’interprete ed il suo pubblico.

Dal punto di vista teatrale, la performance che avviene su un palco, appartiene a quel momento e non è ripetibile. Avvenendo in quell’istante si crea una magia che con la riproducibilità potrebbe quasi perdersi.

Grazie alla tecnologia però, si è riusciti a coinvolgere un pubblico più ampio e probabilmente anche distante dalla visione classica del teatro. Inoltre, in un momento storico come quello che stiamo vivendo, è stato possibile almeno mantenere un contatto con questo tipo di arte che sarebbe potuta venire a mancare.

Così l’opera teatrale digitalizzata, per quanto diventi un momento “ripetibile” ci ha concesso la possibilità di esprimerci comunque. In ogni caso non vediamo l’ora di poter tornare al palco “reale”, sia da performer che da spettatori».

La chiave minimale che racchiude come uno scrigno l’interpretazione del monologo di Francesca diretto da Angelo, raccoglie il testamento di Dissolversi in un’innovativa forma di cortometraggio teatrale, ma da dove nasce l’esigenza di questa scrittura?  Da una repellente esigenza di porre l’attenzione sul momento di crisi che il mondo della cultura e dell’arte sta subendo o verso un diverso tipo di deriva, quello di una sorta di nuova generazione digitalizzata, alienata e travolta dal suo destino pandemico tra confusione frastornate, precarietà e solitudine?

«L’esigenza nasce da diversi bisogni, prima di tutto dal voler esternare sentimenti come rabbia, tristezza e solitudine in un momento tanto delicato.

Abbiamo vissuto un “distacco dalla realtà” che ci ha messi a dura prova in molti ambiti della vita; un distacco nei confronti degli altri, in cui è venuta a mancare la socialità reale e i rapporti umani fisici; un distacco da noi stessi, dove la sensazione più ricorrente era quella di sentirsi inermi ed invisibili in questa situazione estrema.

Il desiderio di mettere in scena “Dissolversi” è dovuto al bisogno di dar voce e dignità a quella sensazione che noi giovani abbiamo vissuto e sentito. Abbiamo voglia di esprimerci e di non arrenderci a quello che ci circonda e sottolineare che “noi esistiamo”. Ci è stato negato un periodo di transizione e crescita che avremmo dovuto vivere in maniera diversa.

È innegabile parlare di generazione digitalizzata, la tencologia è insita nelle nostre vite. Quello che ci auguriamo è di non diventare mai totalmente virtuali, di non perdere il legame con i nostri corpi e con gli altri. Proprio per questo non ci piace parlare di monologo, è più una conversazione, un “tu come stai?”, un confronto fra noi e gli altri, per sentirci meno soli in questa condizione quasi “distruttiva”.  La tecnologia in questo momento ci ha permesso di chiedere a tutti come stanno, di poter realizzare questo progetto e di dedicarlo a tutti coloro che lavorano nello spettacolo, nella cultura, nelle arti in generale».

Fotografia, videomaking, recitazione, architettura, sceneggiature, scenografie, siete stati capaci di convogliare in un lavoro apparentemente breve l’armonia di una moltitudine di arte che accomuna il senso creativo delle nostre radici, riuscite in questo momento a captare il cuore pulsante della nostra città? Notate un risveglio dopo il torpore pandemico? Pensate in una scossa rianimante che può partire proprio dal fare arte e cultura? Fondamento poi solido da sempre della nostra città.

«Il lavoro è stato pensato quando, in zona rossa, la situazione era diversa, molto più critica di adesso, e nessuno sapeva cosa poi sarebbe successo. Riusciamo a vedere uno spiraglio di luce, un risveglio generale su tutti i campi: già l’apertura dei musei e dei cinema è un primo passo verso ciò che prima era la quotidianità e ci auguriamo presto di andare anche ad un concerto. È importantissimo per una città come Napoli, fulcro di eventi culturali, tornare presto ad essere sempre ciò che è stata».

Dissolversi rimane una sorta di rara goccia il mezzo al mare che parte da un’esigenza o si svilupperà in una sorta di proseguo? Magari una clip che rimanda a uno spettacolo o al principio di una serie di lavori che proseguiranno in presenza? So che siete molto amici, in questo periodo e soprattutto dopo Dissolversi, parlate mai di progetti futuri?

«Parliamo spesso di progetti futuri, ci piacerebbe molto continuare, magari con qualcosa di meno drammatico! Sarebbe bello dare un seguito a questo progetto. La difficoltà sta nel fatto che occupandoci di ambiti diversi, come Giovanni per la fotografia, Lorenzo per la musica, Serena e Sabrina per il design, far coincidere tutte le nostre passioni in un unico e grande progetto è complicato ma non impossibile.

Noi siamo amici da diversi anni, abbiamo sempre pensato di collaborare e creare qualcosa insieme, con “Dissolversi” ci siamo riusciti e ne siamo felici ed emozionati».

Ma poi “Dissolversi” è più un superpotere o un difetto di fabbrica?

«In questo video nello specifico, dissolversi, ha un’accezione perlopiù negativa: c’è sembrato quasi di perderci, di perdere l’orientamento, di perdere la strada.

Ma osservare “Dissolversi” sotto un’altra prospettiva ci porta a rivalutare questo aspetto: potrebbe sì anche essere un superpotere, la capacità di essere invisibile in quei momenti in cui non vogliamo essere visti, in cui vorremo nasconderci da tutto quello che succede intorno a noi, dalle tante situazioni della vita a cui vorremmo sfuggire.

Essendo neolaureati ci troviamo a vivere una situazione lavorativamente critica, dove “Dissolversi” assume un duplice significato: siamo invisibili e vorremmo quasi non esserlo, ma allo stesso tempo ci aiuterebbe a non dover affrontare queste difficoltà».

Per guardare Dissolversi clicca qui.

Serena Palmese

Vedi anche: Fotografia al femminile, quando la Newborn si afferma in Campania

Serena Palmese

Mi piacciono le persone, ma proprio tutte. Anche quelle cattive, anche quelle che non condividono le patatine. Cammino, cammino tanto, e osservo, osservo molto di più. Il mio nome è Serena, ho 24 anni e ho studiato all’Accademia di belle Arti di Napoli. Beati voi che sapete sempre chi siete. Beati voi che sapete sempre chi siete.

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