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Eros e Thanatos: la fotografia di Miriam Altomonte

Artista emergente ma paradossalmente già affermata, la giovanissima fotografa napoletana Miriam Altomonte ha già alle sue spalle un passato e davanti a sé un futuro da vera professionista.

Laureata all’Accademia di belle arti, ventisettenne, ha vinto bandi, concorsi e borse di studio oltre ad aver esposto in alcuni dei luoghi più suggestivi e culturalmente rilevanti di Napoli.

Ho voluto incontrarla in un caldissimo pomeriggio di fine luglio, per parlare con lei della sua storia, della sua estetica, dell’estrema bellezza dei suoi scatti, pregni di una femminilità delicata e bestiale al contempo.

Un immaginario unico, quasi stregonesco, sempre imperniato sulle declinazioni del femminile.

Ciao, Miriam.

«Ciao, Sveva.»

E niente, ci incontriamo qui, all’Artigiano, un bellissimo bar nel centro storico di Napoli per parlare della tua arte, della tua fotografia. E a bere dell’ottimo spritz. Parlami di te, raccontami la tua storia.

«Parto?»

Parti.

«Tutto è partito quando sin da piccola. Mio padre scattava, mio nonno sviluppava negativi. È stato lì, magari, che è cominciato tutto ad un livello inconscio. Crescendo, magari, ho preso meglio coscienza. Anche facendo cose diverse, studiando cose diverse, guardando quello che avevo intorno. Attraverso le arti visive, la pittura, il video che paradossalmente è molto distante dalla fotografia, perché è un’arte in movimento.

Cercavo, non so, di tradurre le emozioni che sentivo, quello che attraverso il linguaggio verbale non riuscivo a far emergere. Mi sono sempre basata sullo sguardo, sulla vista, ma attraverso la mia esperienza di danzatrice ho utilizzato come metodo anche il sentire le emozioni, le pulsioni. Tutti i sensi hanno contribuito poi ad unirsi a quello della vista. È stato un processo inverso, che è partito da quello che sentivo per poi emergere con la vista, con la creazione di quello che volevo vedere. La fotografia è stata la mia risposta al mondo.»

Tu sei partita da te stessa, dal ritrarre te stessa.

«Sì, sono partita dall’autoritratto, dall’autofotografarmi, mi incuriosiva e mi incuriosisce ancora oggi e mi aiuta a capire delle cose. Mi aiuta a partire da me stessa per poi guardare fuori, fotografando poi anche l’altro. Partire da se stessi è la cosa più difficile, perché girare l’obiettivo su te stesso è un lavoro di autoanalisi, devi eliminare tutti i giudizi e pregiudizi che hai su te stesso, costruzioni sociali, costruzioni familiari. Denudarsi davanti ad un obiettivo che ti spoglia di qualsiasi cosa è forte ed importante per poi scoprire tante altre cose, no?»

Quando hai cominciato a guardare verso l’esterno?

«Dopo un bel po’ di anni, almeno un tre anni fissi sull’autoritratto, ho iniziato a guardare all’esterno.  Mi sono sempre concentrata su un oggetto, come quando ero io il soggetto, e ci cercavo una serie di valori. Chiaramente, anche quando guardi l’esterno, guardi sempre te stesso, attraverso te stesso. Dunque, sembra uno scioglilingua, ma se riesci a vedere te stesso riesci a vedere anche il mondo attraverso te stesso.

Se io mi concentro su un oggetto (ad esempio il bicchiere che abbiamo davanti), ci vedrò delle cose diverse da te perché lo filtro con il mio vissuto e le mie esperienze. E se lo immortalo osservandolo ogni giorno, lo stesso oggetto cambierà ogni giorno perché sono io a cambiare. Ho fatto un lavoro che è andato in mostra anche a Villa Pignatelli, alla Casa della fotografia, che si intitola To Preserve.

Si basa precisamente su questo. Il mio lavoro si basa principalmente sulla figura femminile, il filo conduttore è quasi sempre quello, anche quando incidevo e dipingevo. Questo lavoro, To Preserve, è basato sui dei profilattici con all’interno dei fiori. Ho smesso di occuparmi di me stessa e ho iniziato ad utilizzare dei fiori come estensioni di me. Il soggetto è sempre lo stesso, ed è sostanzialmente una figura fallica che poi assume un aspetto femminile, ricorda un seno, tantissime altre cose. Adesso, lavorando nel commerciale, negli shooting, ho estrapolato quello che ho imparato sul mio corpo per proiettarlo su altri corpi, principalmente femminili.»

Trovo che il tuo modo di immortalare le donne sia molto delicato, femminile, è uno sguardo femminile sulla donna. La sensualità delle tue foto non è mai volgare.

«Sì, cerco di insistere sul creare dell’erotismo che non vada a finire nel pornografico. I miei lavori sono sempre stati definiti molto erotici. Anche immagini che potrebbero essere molto forti, cerco sempre di dotare di una forma femminile che crei delicatezza, ma anche quel senso dell’effimero della vita. Quello che voglio sintetizzare è appunto quell’energia che esiste tra tutti i corpi.»

In cosa ti ha aiutato, personalmente, la fotografia?

«Mi ha aiutato ad esprimere quello che ero e non riuscivo a dire a parole, a dare una forma alle mie emozioni. Essendo una persona riservata, anche se da questa intervista magari non sembra, trovare le parole per comunicare è sempre stato molto difficile per me, quindi parlare il linguaggio artistico mi ha aiutata a crescere, a comunicare meglio. Il fine della mia arte è comunque comunicativo.»

Che lavoro stai facendo adesso?

«Lavoro con la fotografia, con dei brand di moda qui a Napoli. Ce ne sono moltissimi, questo è un terreno fertile nonostante possa sembrare diversamente. Se sei valido, lavori. Io lavoro nell’ambito  della moda e ho avuto la fortuna di poter immergere il lavoro artistico fatto su me stessa o altri soggetti con gli editoriali di moda. Conoscendo me stessa, riesco a capire anche come cucire la mia cifra sulle modelle, creando dunque opere di moda e arte assieme.»

Come definiresti, infine, con una frase o parola, il tuo approccio all’arte?

«Mistico.»

Per vedere i meravigliosi scatti di Miriam, vi consiglio questo link e il suo profilo Instagram.

Sveva Di Palma
Vedi anche: Joe O’Donnell: la fotografia che parla

Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.

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