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Gladiatori: tra storia, mito e arte

È stato recentemente riportato alla luce a Pompei un affresco raffigurante due gladiatori.

Ma qual era la vita e la sorte di questi combattenti?

“L’arma più potente che un guerriero può portare in battaglia è la certezza assoluta che la sua anima sia eterna” dice Charles Palahniuk, così come eterni sono i resti di Pompei che da quasi duemila anni riescono ancora ad incantare e a stupire gente da tutto il mondo.

Sì, perché la città, travolta e distrutta dal Vesuvio nel 79 d.C., continua a regalare moti di stupore.

Da poco è tornato alla luce un affresco nell’area di scavo Regio V che raffigura il combattimento tra due gladiatori, per la precisione un Mirmillone e un Trace.

I combattenti nell’antica Roma, infatti, erano distinguibili per il tipo di armatura indossata e per l’arma che utilizzavano: il Mirmillone dell’affresco, ad esempio, appartiene alla categoria degli Scutati, cioè dotati di scudo rettangolare, e impugna il gladio, una piccola spada a doppio taglio dalla lama larga mentre sulla testa indossa il cimiero, un elmo a tesa larga con visiera.

Il Trace che sembra avere la peggio, dall’altra parte, è raffigurato con l’elmo che prende il nome di galea e il piccolo scudo detto parma.

L’affresco a forma trapezoidale decorava probabilmente le pareti di una bettola frequentata da gladiatori i quali, ricordiamo, erano schiavi, prigionieri di guerra o persone incriminate di qualche reato.

Ma qual era lo stile di vita questi combattenti costretti?

Abbiamo già accennato a come i gladiatori si distinguessero tra loro ma sicuramente avevano una cosa in comune: imparare a morire.

Già, perché negli anfiteatri in cui si allenavano duramente, i gladiatori imparavano innanzi tutto a morire con onore, grazia e sprezzo del pericolo.

Anzi, offrire il collo o il petto all’avversario era sinonimo di grande valore.

In realtà, anche se i combattimenti tra gladiatori sono annoverati come i più cruenti nella storia di Roma, lo scopo finale non era quello di veder sopperire uno dei due, dato che investire in un gladiatore non era una spesa da poco.

Ma quando ciò accadeva, qual era il rituale?

In genere un gladiatore moriva o durante il combattimento o, una volta atterrato, ucciso dal suo avversario per volere del pubblico che non gli concedeva la grazia attraverso il famoso gesto del pollice verso.

Che ha creato non poca confusione!

Sembrerebbe, infatti, secondo recenti studi che a dare salva la vita fosse non il pollice rivolto verso l’alto bensì il tanto temuto pollice verso il basso.

Proprio così: per secoli l’interpretazione del famoso gesto sarebbe stata erronea e sarebbe proprio il pollice teso verso il basso a salvare la vita dello sventurato combattente.

A creare questa confusione si dice sia stato il pittore Jean-Léon Gérome in un quadro intitolato Pollice Verso in cui le Vestali, le sacerdotesse della dea Vesta, chiedevano la morte di un gladiatore sconfitto volgendo i pollici verso il basso.

Da allora nella cultura popolare si è diffusa la versione erronea del gesto: basti pensare alla nota scena del Gladiatore in cui l’imperatore Commodo volge il suo pollice verso il basso.

Maria Rosaria Corsino

Vedi anche: Citazioni famose: ma dov’è che l’ho già sentita?

Maria Rosaria Corsino

Maria Rosaria Corsino nasce a Napoli il 26 Dicembre 1995 sotto il segno del Capricorno. Laureata in Lettere Moderne, si accinge a diventare filologa. Forse. Redattrice per “La Testata”,capo della sezione di grafica. Amante della letteratura, della musica, dell’arte tutta e del caffè.
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