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5 è il numero perfetto: Servillo, Napoli noir e guapparia

Siamo stati al Napoli Film Festival in occasione della proiezione del cinecomic di Igort, preceduta da un incontro ravvicinato con Toni Servillo, protagonista del noir napoletano nell’inedita veste di gangster.

Napoli, 26 settembre 1972.

Una pioggia di lacreme napulitaneavvolge i vicarielli antichi in una coltre densa e affumicata di ombre metafisiche e chiaroscuri violenti, espressionisti. La silhouette grottesca di Peppino Lo Cicero – tutta naso adunco alla Pulcinella e cappello da guappo – scivola lieve e riflessiva sui sampietrini traslucidi con passo felpato, raccontandosi il passato come un liquore troppo forte, che “butti giù, senti ca’ te da’ ‘a botta, ma non sei sicuro di aver capito veramente che gusto aveva”. La parlata dialettale di Servillo, coerente con il suo manierismo interpretativo “sorrentiniano”, restituisce immediatamente spessore e potenza all’anima fiacca e sbiadita del protagonista, nell’alternanza vibrante di aforismi, aspro umorismo e sospensioni eloquentissime.

Siamo in una Napoli perennemente dark, quieta e inquietante, solitaria e onirica, il rovescio di ogni stigma sulla “città d’‘o sole e d’‘o mare”. Resta il rituale del caffè, scuro e amaro come questa torbida trama di rivalse e tradimenti, e il fascino barocco dei palazzi fatiscenti che tagliano squarci di cielo plumbeo.

L’ex gangster, ormai immerso nella routine meditabonda di chi ha vissuto con intensità e guarda retrospettivamente a quella stagione ruggente come un riflesso sfocato, si ritrova catapultato in una faida tra clan dopo il vile assassinio di Nino, ultima creatura sopravvissuta in famiglia, caro quanto la splendida rivoltella che Peppino incarta con cura per donarla al figlio come regalo di compleanno anticipato. “Mancano due settimane, ma questa è la notte giusta per usarla”, afferma con tono accorato la sera stessa del misfatto, quasi come mosso da un presentimento sinistro.

L’agguato teso da un cartomante in chiodo di pelle e ciuffo laccato alla Elvis è la miccia di questa spettacolare guerra camorristica fatta di coreografie geometricamente studiate, scene splatter dagli echi tarantiniani e sfolgoranti luci che si accendono a intermittenza in scenari suggestivi come Palazzo dello Spagnuolo, già abusato dalla cinematografia del passato per il suo fascino cupo e maledetto.

Inebriato dall’odore della polvere da sparo e rimesso al mondo dall’adrenalina che solo uno scontro a fuoco così sanguigno sa restituire, il nostro (non più) incallito soldato della malavita lancia una sfida alla criminalità di quartiere e leva un grido roboante di dolore e vendetta nella notte partenopea torbida e violenta, spalleggiato da un Buccirosso quasi macchiettistico – detto Totò ‘o Macellaio – e dalla sua antica fiamma Rita (Valeria Golino), che colora la pellicola di sfumature melò.

Il cinecomic di Igort, fumettista sardo la cui fama rimbalza da Occidente a Oriente, nasce dopo 15 anni di spunti cestinati, svariate proposte di adattamenti cinematografici e sceneggiature abbozzate, quando la trasposizione sul grande schermo del graphic novel – disegnato a Tokyo negli anni ‘90 e tradotto in 15 lingue – sembrava un’idea troppo rischiosa per un’opera prima. Ma quest’atmosfera sorgiva, trattandosi della prima prova dietro la macchina da presa per l’avanguardistico disegnatore, porta con sé l’entusiasmo irripetibile e contagioso delle prime volte, che, unito ad una visione autoriale chiara e a personaggi dalla grande forza drammaturgica, non può lasciare lo spettatore indifferente. Igort è partito dall’essenza del cinema moderno italiano, incrociando citazioni ed espedienti dei suoi numi tutelari: dal western di Sergio Leone – che sbuca prepotente nell’estetica solenne della resa dei conti, sul tetto di un palazzo all’ombra dell’insegna al neon Campari – a Il deserto rosso di Antonioni. L’artificio viene esplorato come possibilità narrativa per penetrare l’intimità dei personaggi, sullo scenario di una Napoli diversamente pop, ventre lacerato da miseria e proiettili volanti, tra cinema fantasma, madonne solitarie incorniciate in teche dal gusto kitsch e cartelli luminosi in stile LA. Sanità, Cavone e Gianturco danno vita a quell’astrazione crepuscolare, a quelle visioni rarefatte, stantie e alienanti di un Casorati, un de Chirico o un Hopper, riuscendo a riprodurre visivamente la vulnerabilità, lo smarrimento e la ricerca di senso dei personaggi, in piena negazione dell’iperrealismo di Gomorra.

Napoli diventa così la vera protagonista della pellicola, una natura morta perfettamente inquadrata dalla delicatezza melanconica di Nicolaj Bruel – David di Donatello per la fotografia di Dogman – il guscio su cui poggiano 2 gambe, 2 braccia e 1 testa, le 5 parti che rendono un uomo stoicamente autosufficiente, proprio come Peppino Lo Cicero in questo ruspante noir dal taglio partenopeo.

 

Francesca Eboli

 

 

La Redazione

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