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Tutta la vita è teatro

Se vi dicessi che, nella nostra vita quotidiana, c’è un luogo dove rappresentiamo noi stessi come se fossimo su un palcoscenico e un altro posto, distinto, dove invece ci sentiamo liberi di parlare, non pensereste “lo faccio anche io?”

Erving Goffman, sociologo del Novecento, comprende a fondo questi meccanismi di interazione definendo una vera e propria teoria comunicativa che gira intorno alla metafora del teatro per descrivere ciò che gli individui pensano e come essi agiscono in presenza di altri individui. Infatti, usa termini tipicamente teatrali, come “ribalta” e “retroscena”.

Ne La vita quotidiana come rappresentazione (1959) si prospetta la figura di un individuo o gruppo che si presenta nella “ribalta” avendo considerato nel “retroscena” cosa dire, cosa fare e come muoversi in base alla situazione che si deve affrontare scegliendo addirittura degli script (copioni) selezionati, scegliendo il costume di scena più adatto.

Quello che viene fuori da queste considerazioni è una comunicazione interpersonale propriamente drammaturgica: in un’interazione si può essere sia pubblico che spettatore e, ognuna delle parti, cercherà di far accettare all’altra la sua visione della realtà, o meglio, quello che essa sta recitando. Avendo entrambe le parti la stessa intenzione, ciò che scaturirà dal loro interfacciarsi sarà una semplice negoziazione per mantenere la pace.

Da questo modello drammaturgico ne esce fuori in modo nefasto l’Io (Self): esso non è, come qualcuno può pensare, quello del “retroscena”, dove si prepara con la sua equipe, ma è definito proprio nell’interazione con l’altro, diventando un effetto della sua messa in scena. La relativa continuità del sé non è la struttura interna, bensì il contesto istituzionalizzato, in cui vengono definiti sia i personaggi individuali sia la sfera del pubblico.

Anche se questa ci sembra una cruda realtà, è sostanzialmente quello che mettiamo in atto nelle più diverse situazioni della nostra vita. Pensate a un esame: da un lato abbiamo uno studente che si è preparato nel retroscena e che commenta le azioni del professore con i suoi compagni, ma si mostra nella versione migliore di sé una volta arrivato in cattedra (il suo palcoscenico); dall’altro il docente, che come lo studente, è sia lo spettatore che l’attore: infatti, si prepara per dimostrarsi ai suoi studenti come il più cattivo di tutti, e ne ride con i suoi colleghi. Alla fine, cos’è l’esame, se non la negoziazione di entrambe le realtà messe in scena? E lo studente, non si sente in minima parte rappresentato dal voto che ha preso, così come il docente dalla sua fama di essere spietato?

di Carolina Niglio

 Disegno di Alberto De Vito Piscicelli

La Redazione

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