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Il Principe Splendente: la nascita del romanzo moderno nel Genji Monogatari

Non servono porte dorate o grida divine per entrare nel mondo del Genji Monogatari. Basta il crepitio sommesso di una lanterna, la fragranza della corteccia di cedro, il fruscio di una manica di seta che sfiora il tatami. È notte a Heian-kyō, l’antica Kyoto, e il palazzo imperiale dorme dietro pareti di carta semitrasparente.

Nella quiete, le stanze sembrano sospese come petali nell’acqua: ogni voce è un sussurro, ogni passo un’eco che l’eternità custodisce con delicatezza. In questo universo di gesti misurati, ove la bellezza è un obbligo e il sentimento un rischio, una giovane dama di corte prende un pennello. Si chiama Murasaki Shikibu. Senza proclami, inizia a scrivere il destino di un uomo e, inconsapevole, inaugura la storia del romanzo.

Era l’XI secolo quando Il racconto di Genji prese forma, intessendo cinquantiquattro capitoli di vite intrecciate. Al centro, Hikaru Genji, il “Principe Splendente”: figlio dell’imperatore, affascinante, elegante, incapace di sfuggire alle trame della corte e agli abissi del proprio cuore. Non è un eroe invincibile, bensì un essere vulnerabile che rincorre un amore perduto — la madre morta troppo presto — e lo ricerca in ogni donna che incontra. L’opera non narra vittorie, ma attese; non mostra battaglie, ma passioni che ardono come incenso e si spengono nel silenzio dell’alba. In Genji convivono splendore e fragilità: due metà inseparabili di un’anima condannata al desiderio.

La penna di Murasaki, nutrita dall’osservazione discreta della corte dell’imperatrice Shōshi, tratteggia un universo che sfugge a ogni definizione. Nel monogatari, il racconto in prosa della tradizione giapponese, l’autrice inserisce elementi radicalmente nuovi: profondità psicologica, evoluzione dei personaggi, memoria emotiva. Gli amori proibiti, le amicizie irrisolte, i matrimoni di convenienza non sono aneddoti, ma ferite che modellano i protagonisti. Per questo, molti lettori e studiosi vedono nel Genji il primo romanzo moderno: non una cronaca esterna, ma un viaggio nell’intimità.

La corte Heian, teatro e gabbia dei sentimenti, respira nelle pagine del libro. Tutto è simbolo, tutto è presagio. Le finestre spalancate sulla luna autunnale, il profumo dell’incenso che distingue le stanze, il colore dei kimono come linguaggio sociale: ogni dettaglio è un gradino verso la comprensione dei cuori. È qui che emerge il mono no aware, la consapevolezza struggente della caducità. Petali di ciliegio che si disperdono al vento, foglie d’acero che si tingono di cremisi, il canto lontano di un koto al crepuscolo: non sono decorazioni, ma i battiti dell’opera. Murasaki ci ricorda che tutto ciò che è bello è destinato a svanire, e che proprio in tale fragilità risiede la verità dell’esistenza.

Genji vive, ama, sbaglia. Si innamora di donne diverse, inseguendo un ideale impossibile. Nessuna conquista lo soddisfa, poiché l’amore per lui è un’ombra inafferrabile. Anche nei momenti di trionfo — quando il suo prestigio sembra dominare la corte — la malinconia lo accompagna, come una veste invisibile. La sua gloria è riflessa: luce che danza sulla superficie di uno stagno, pur splendente eppure destinata a frantumarsi al minimo tocco.

Il romanzo, però, non si arresta con la morte del protagonista. Continua con i figli, con il misterioso Kaoru, con personaggi che ne portano l’eredità emotiva. Come una corrente che non conosce foce, la storia prosegue senza concludersi, suggerendo che nessuna vita è compiuta in sé: gli affetti sopravvivono, cambiano forma, si trasmettono come il profumo dell’incenso che impregna i tessuti per generazioni.

Eppure, l’importanza del Genji Monogatari non appartiene solo al passato. Nel Giappone moderno, l’opera è diventata terreno di studi interdisciplinari che abbracciano estetica, psicologia, storia sociale e filosofia. A partire dal XIX secolo, filologi e storici hanno ricostruito la lingua raffinata della corte Heian — un giapponese colto, intriso di allusioni poetiche — rendendo accessibile un testo che per secoli era rimasto privilegio di élite aristocratiche. Traduttori come Arthur Waley e Edward Seidensticker ne hanno diffuso la conoscenza in Occidente, offrendo interpretazioni diverse del carattere di Genji: per Waley, un seduttore romantico e nostalgico; per Seidensticker, una figura più ambigua, dominata da senso di colpa e desiderio.

Gli studi contemporanei mettono in luce la dimensione femminile dell’opera. Murasaki non osserva il mondo dagli spalti del potere, ma dalle stanze dove le dame scambiano lettere profumate e canti segreti. In queste pagine, la voce delle donne non è subordinata: è consapevole, talvolta ironica, capace di giudicare la società che le contiene. La corte Heian — apparentemente gentile e armoniosa — è un labirinto in cui le donne sanno muoversi con destrezza. Attraverso esse, il romanzo denuncia l’ingiustizia silenziosa delle convenzioni, mostrandoci la solitudine di chi vive prigioniero del decoro.

C’è poi la questione della memoria culturale. Il Genji modella l’identità estetica giapponese come pochi altri testi: la sua sensibilità verso la natura e la transitorietà si riflette nella poesia, nella pittura, nel teatro nō, nella cerimonia del tè, persino nella progettazione dei giardini. Ogni generazione di artisti vi ha trovato un riflesso: non un monumento immobile, ma uno specchio che restituisce nuove sfumature. L’opera diventa quindi una lente con cui guardare il tempo, ricordandoci che la bellezza è tanto più preziosa quanto più è destinata a svanire.

Gli emakimono — rotoli illustrati che raffigurano scene del Genji — ci offrono ancora oggi un frammento di quell’eleganza. I volti inclinati, gli occhi socchiusi, i paesaggi stilizzati di palazzi e giardini non sono mere miniature artistiche: sono specchi di un tempo che scelse la delicatezza come linguaggio del potere. Nel Genji, la grandezza non nasce dal clamore, ma dal silenzio: dalla capacità di percepire ciò che non viene detto, dal riconoscere un’emozione nell’ombra di un gesto.

Sfogliando questo capolavoro, possiamo sorridere davanti all’ingenuità di certi amori o commuoverci per la loro inevitabile fine. Eppure, al di là dell’estetica raffinatissima, sopravvive un’eredità universale: la vita non si misura in trionfi e domini, ma nei sentimenti che ci attraversano come vento tra i paraventi di carta. Forse il Principe Splendente non è mai realmente esistito; forse sì. Ma la sua voce, modulata dalla mano di Murasaki, continua a risuonare dopo mille anni, fragile e luminosa, sospesa tra memoria e sogno, come la luna che si specchia sull’acqua.

Antonio Palumbo

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Antonio Palumbo

Antonio Palumbo, classe 1999, è dottore in Lettere Moderne e attualmente completa la propria formazione con una magistrale in Filologia Moderna presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II". Insegna Lingua e Letteratura Italiana in un istituto scolastico privato e, appassionato di lettura e di scrittura, dedica il suo tempo libero anche alla fotografia naturalistica e al collezionismo di libri e di monete antiche. Insegue il sogno di visitare il mondo e di scoprire tutto il fascino e la complessità delle diverse culture umane.
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