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Quando il videogioco racconta: ucronia e identità nel mondo di Fallout

Può un videogioco raccontare una storia con la stessa profondità di un’opera letteraria? 

Una domanda che, negli ultimi anni, ha smesso di suonare provocatoria.

Sempre più titoli, infatti, scelgono di puntare su una narrazione che non funge da semplice sfondo all’esperienza di gioco, ma ne rappresenta il cuore pulsante, oltre che un elemento fondamentale dell’offerta ludica proposta. Alcuni giochi riescono a costruire mondi alternativi e scenari distopici che richiamano certe tendenze della fantascienza letteraria; altri, invece, si avvicinano al romanzo di formazione, esplorando temi come i legami affettivi, la perdita, la crescita personale e l’evoluzione dei personaggi. 

Ma in che modo il videogioco riesce a mettere in moto questi complessi meccanismi narrativi? E cosa succede quando attinge a strutture proprie della distopia, della narrativa storica o persino dell’epica classica? 

Spinti dal desiderio di rispondere a queste domande, ci soffermeremo su alcuni casi emblematici, per osservare da vicino come il videogioco possa trasformarsi in racconto e, nel farlo, intrecciare un dialogo con la tradizione letteraria, non per limitarla, ma per ampliarne fascinosamente i confini. 

La spaventosa ucronia di Fallout

Ambientata in un futuro post-apocalittico in cui il mondo è stato completamente devastato dalle guerre nucleari, la saga di Fallout ci pone di fronte ad un’amara verità: a porre fine alla civiltà non sarebbero state le bombe, ma la brama di potere che, fin dall’alba dei tempi, consuma l’uomo e lo conduce alla sua inevitabile autodistruzione. Nell’anno 2077, infatti, una pioggia di missili investì la Terra e dopo soltanto alcune ore, benché si vociferasse che fosse stata la Cina ad attaccare gli Stati Uniti, la questione perse interesse, sostituita dal disperato tentativo di mettersi in salvo. Decenni dopo il cataclisma, a cavallo tra ventiduesimo e ventitreesimo secolo, ciò che resta dell’umanità sopravvive immersa in una sconfinata distesa radioattiva e, resistendo alle razzie dei predoni e agli attacchi di orribili creature mutate, maledice il giorno in cui semplicemente distrusse sé stessa.

Ma l’avidità dell’uomo, si sa, non ha fine: coloro che vivono nei cosiddetti Vault, ovvero enormi bunker sotterranei costruiti dal governo americano con la scusa di proteggere la popolazione, sono in realtà soggetti a terribili esperimenti, spesso volti a testare gli estremi comportamenti dell’uomo in condizioni particolari; celebre quello in cui, nel Vault 106, i sistemi di ventilazione rilasciavano droghe psicotrope per osservare il comportamento dei residenti sotto delirio. E se nella zona contaminata imperversano società primitive, schiavisti, città-stato e soprattutto fazioni che tentano di imporre violentemente la propria ideologia, in un mondo come questo sembrano esistere ancora, anche se nascosti sotto le macerie della vecchia umanità, sentimenti quali l’empatia e la solidarietà umana: è il caso dei ghoul, esseri umani scarnificati dall’eccessivo carico di radiazioni subite, ma che conservano, ad eccezione dell’aspetto esteriore, tutte le caratteristiche di umanità che possedevano prima del disastro. Vittime di episodi di un razzismo che li equiparerà a dei mostri senza cervello, non diversi dalle infinite creature mutate che popolano la Terra contaminata, sapranno dimostrarsi depositari di una solidarietà fuori dal comune, in particolare nei riguardi di coloro che in precedenza li avevano disprezzati ed emarginati.

Ed è proprio attraverso figure come queste che la saga riesce a costruire un sistema narrativo profondamente ucronico, ovvero un universo che, partendo da un punto di divergenza storico, costruisce una realtà alternativa inquietante, eppure perfettamente coerente con le logiche interne del racconto. Inoltre, è interessante notare che, nonostante la sua ambientazione cupa e desolante, il videogioco potrebbe essere letto anche come una forma di utopia capovolta; in mezzo alle rovine della civiltà, infatti, emergono ancora barlumi di umanità, speranza e senso etico. La presenza di personaggi come i ghoul, capaci di compassione e altruismo pur essendo disprezzati dal resto del mondo, suggerisce che la vera utopia non è un luogo perfetto, ma uno stato d’animo, una tensione morale che sopravvive anche nel peggiore dei mondi possibili. E forse, proprio per questo, Fallout ci parla più di futuro di quanto sembri: non con la promessa di una redenzione globale, ma con la consapevolezza che anche tra le ceneri, l’uomo può scegliere di essere migliore.

Identità, memoria, umanità

Eppure, in un mondo dove la carne può marcire senza compromettere l’anima, la linea di confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è diventa sempre più sottile. Non sorprende, allora, che una delle missioni più emblematiche di Fallout 3, intitolata L’uomo duplicato, affronti proprio il tema dell’identità, spingendoci a chiederci se sia la materia o la memoria a definire chi siamo davvero. In questa storia, ambientata tra le rovine di Rivet City, il giocatore si troverà di fronte a un dilemma morale e filosofico: un androide fuggito dall’Istituto vive nascosto tra gli umani, convinto di essere uno di loro. Non sa – o forse non vuole sapere – di essere stato creato in laboratorio. E quando la verità torna a bussare alla sua porta, spetta al giocatore decidere se restituirgli la sua identità originaria o lasciarlo vivere la sua nuova vita, costruita non su circuiti e comandi, ma su scelte e ricordi.

Ed è qui che il videogioco si avvicina alla letteratura in modo sorprendente: il conflitto esistenziale presentato da Fallout, infatti, richiama alla mente le atmosfere e i dilemmi del romanzo L’uomo duplicato di José Saramago, in cui il protagonista si confronta con la propria replica perfetta, in un confronto tanto fisico quanto metafisico sulla natura dell’io e sull’angoscia di non essere unici. Ma ancora più struggente è il parallelo con Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro, dove i cloni, pur consapevoli della loro funzione come “ricambi umani”, vivono emozioni autentiche, intrecciano legami profondi e desiderano semplicemente una vita normale. 

In un contesto narrativo dove tecnologia e umanità si intrecciano fino a confondersi, Fallout 3 ci invita a riflettere su cosa significhi davvero essere umani. È la nostra origine biologica a definirci, o sono le esperienze, i ricordi e le scelte da noi compiute a farlo? Come nei romanzi di Saramago e Ishiguro, anche qui il concetto di identità si sgretola e si ricompone, rivelando che non esiste una verità univoca sull’io, né tantomeno una risposta assoluta alla domanda: “siamo ciò che siamo nati per essere, o ciò che abbiamo deciso di diventare?” 

Coerenza della narrazione

Ciò che rende davvero affascinante la narrazione videoludica di Fallout non è soltanto la ricchezza dei suoi temi o la profondità dei suoi personaggi, ma la straordinaria coerenza interna con cui questi elementi vengono messi in scena. Ogni dettaglio – dalle rovine arrugginite di una civiltà scomparsa agli stralci di registrazioni audio che raccontano storie di vite spezzate – contribuisce a costruire un mondo che, pur nella sua estrema alterità, appare sorprendentemente credibile.

La distopia non è mai un semplice scenario estetico, ma una struttura logica che regge l’intera impalcatura narrativa: le scelte morali del giocatore, le dinamiche sociali delle fazioni, perfino l’architettura degli insediamenti post-atomici obbediscono a un preciso principio di verosimiglianza interna. In questo senso, Fallout riesce là dove molte opere di fiction falliscono: dare forma a un universo dove ogni elemento ha un senso, una funzione, una coerenza narrativa. È una fedeltà al mondo creato che richiama da vicino quella della letteratura più consapevole, dove l’ambientazione non è mai solo sfondo, ma personaggio attivo, voce narrante, specchio delle tensioni interne ai protagonisti. In Fallout, come nei grandi romanzi distopici, la storia che viviamo è possibile solo perché quel mondo – pur assurdo, pur estremo – si regge su regole che, una volta accettate, non tradiscono mai la fiducia del lettore. Ed è proprio questa coerenza, rigorosa e inquietante, a trasformare il caos del mondo post-apocalittico in un potente dispositivo narrativo: un racconto dove ogni scelta pesa, ogni evento ha le sue conseguenze e ogni verità, per quanto scomoda, trova il suo posto nell’ordine logico delle cose. 

Ma questa è soltanto la prima tappa di un lungo percorso, il viaggio continua…

Antonio Palumbo 

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Antonio Palumbo

Antonio Palumbo, classe 1999, è dottore in Lettere Moderne e attualmente completa la propria formazione con una magistrale in Filologia Moderna presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II". Insegna Lingua e Letteratura Italiana in un istituto scolastico privato e, appassionato di lettura e di scrittura, dedica il suo tempo libero anche alla fotografia naturalistica e al collezionismo di libri e di monete antiche. Insegue il sogno di visitare il mondo e di scoprire tutto il fascino e la complessità delle diverse culture umane.
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