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Sono ancora qui e rimarrò per sempre qua dentro

Auschwitz – Birkenau: è qui, solo qui, che, tutto diventa reale e capisci davvero.

Cracovia, 6 febbraio 2024. È il mio compleanno. Il campo è a sessanta chilometri dalla città. Andare, non andare. Abbiamo deciso di sì. È il dovere della memoria.

Mi sono svegliata tra i boschi, guardo dal finestrino e cerco di immaginare come si sentivano i deportati su queste rotaie, se al buio, o al freddo, assetati, cacciati dalle proprie case e dalla vita che non avrebbero avuto più. 

Sono come sono: curiosa e poco ansiosa. Malinconica sempre. Il viaggio procede liscio. La mia vita a casa è sempre più lontana e silenziosa. 

La nostra guida ci ha consegnato i documenti e chiesto di attaccare un adesivo sulla giacca per essere riconoscibile all’interno del campo. È surreale.

Ho varcato il cancello Arbeit macht frei con un’etichetta sul petto, e in cuor mio, in memoria dei distintivi cuciti alle divise a righe dei deportati. Questo è l’inferno? 

Ci muoviamo con lo sguardo basso, come se, non volessimo vedere tutto. Qui, viene a mancare la naturalezza di respirare, e per un attimo, di sentirsi se stessi. 

Giungiamo nel piazzale antistante l’entrata del campo di Auschwitz e silenzio. Non ci si può nemmeno avvicinare a comprendere cosa sia avvenuto oltre quel filo spinato ottant’anni fa. Ora lo varchiamo da persone libere ma in un tempo non troppo lontano dal nostro è stata l’ultima cosa che separava la libertà dalla morte. 

Sembra incredibile ma ad Auschwitz sono riusciti a conservare quasi tutto. E poi le foto. Quelle foto ti entrano negli occhi. Provare il dolore di tutte quelle morti, vederle reali e tangibili, ti cambia almeno un po’.

Eravamo nello stesso edificio dove i deportati venivano spogliati, rasati e tatuati. Non ci sono parole per descrivere questo luogo, o la crudeltà che ha regnato, in crescendo, per cinque anni. 

E se le fotografie sono atroci, le due delle otto tonnellate di capelli ritrovati nel campo sono devastanti. Una catasta immensa di capelli: scuri, chiari, intrecciati, pettinati, gli ultimi. Una minima parte, gli ultimi non ancora spediti al Terzo Reich per imbottire materassi o uniformi delle SS.

Una fotografia ritrae il piazzale di Birkenau poco dopo l’arrivo di un treno. Guardie e detenuti si impegnano a recuperare e organizzare i beni portati con sé da uomini e donne che sono stati costretti ad abbandonare nei vagoni. Ogni cosa di valore veniva acquisita ad uso del Terzo Reich.

La stessa cosa succedeva negli spogliatoi prima di entrare nelle camere a gas, o dopo insomma, quando una squadra speciale chiamata Sonderkommando, composta da detenuti, aveva il compito di tagliare i capelli e strappare i denti d’oro ai corpi prima di portarli al piano superiore, dove venivano bruciati nei forni crematori. 

Così erano considerati gli esseri umani qui: sola merce da sfruttare o eliminare in fretta. Persone che pensavano di iniziare una nuova vita e portavano gli oggetti più preziosi con sé, e invece, si consumava un’inumana prigionia. Un inferno

Tante le teche di vetro in esposizione. Ho visto, sui muri, poesie, parole e disegni. Ho visto, sui muri, le parole di esseri umani che, nonostante tutto, nonostante il campo di sterminio esistesse al solo scopo di privarli dell’umanità prima e della vita poi, cercavano, con le parole, la forza di rimanere tali. Umani.

Ho visto tante cose. E pensato sempre un po’ di più alla loro appartenenza. E poi, ho visto quei granuli di colore bluastro, impregnati di acido cianidrico e utilizzati per disperdere nelle false docce quel gas che portava alla morte migliaia di persone in una manciata di minuti. Le scatole di latta dello Zyklon B.

È tutto così troppo grande. La scarpa di un bambino, il groviglio di occhiali, la vita nelle valigie. Monti e rimonti. Non ritagli mai. E in quel montaggio impazzito del film che scorre, prima nei miei occhi e poi, nella mia testa, si sovrappone tutto quanto. 

Si sovrappongono i silenzi dei rassegnati, le urla dei disperati, i tonfi dei corpi, gli sguardi stralunati e impauriti, e pure quelli compiaciuti. 

Sono fuori. C’è Camillo. Camillo è il nostro autista privato. Camillo è qui con una busta di carta semplice che tiene dal manico. È per me. È il mio compleanno. 

Andiamo a Birkenau, campo costruito appositamente per lo sterminio di massa, aperto nel 1942, per attuare la cosiddetta “Soluzione finale alla questione ebraica”. 

Birkenau è l’immenso. A vederlo non si riesce a scorgerne la fine. A differenza di Auschwitz, è terrificante. Qui, si trovano le prime baracche in legno, incerte e fragili. 

Qui è dove Josef Mengele torturava centinaia di migliaia di prigionieri conducendo esperimenti dolorosi e debilitanti. Diverse delle sue vittime furono gemelli, spesso bambini e persone affette da nanismo. Molte di queste persone morirono. Ancora.

Qui l’orrore non si materializza nei volti delle foto e negli oggetti. Qui non passi da un edificio all’altro, esternamente identici a come erano, all’interno adattati per ospitare la mostra, nella sua apparente atmosfera di normalità. 

Con i suoi viali e vialetti ordinati. Una prigione certo, ma apparentemente normale. Ma poi, volgi lo sguardo dal lato opposto del vialetto interno e vedi una forca dove furono impiccati, per rappresaglia, dodici prigionieri polacchi.

Qui ti imbatti in un urna di ceneri umane raccolte che i tedeschi usavano per concimare i campi o, d’inverno, per cospargere le strade ghiacciate del campo.

È qui che si compie il maggiore massacro perpetrato durante la Shoah, con l’ausilio di una tecnologia di assassinio e di un’organizzazione perfezionati all’estrema potenza, in grado di distruggere in poche ore la vita di migliaia di persone.

Qui quasi tutto è stato distrutto. Birkenau è l’immenso. Vuoto, molto più di vuoto. 

Sono arrivata qui, nel cuore dell’Europa, attraversando boschi ricoperti di vischio portafortuna.

Avrei potuto camminare pure sulla neve ghiacciata, sul filo spinato verso la libertà, tra le rovine dei forni crematori, le baracche con file di buchi uno attaccato all’altro per liberarsi dagli escrementi, e ancora, tra le fosse scavate dai prigionieri. E poi, tra  i binari, quelli che portano alla morte.

Di cosa dovrei aver paura? Abbiamo qualcuno che ci protegge. 

Qui è dove ho scelto di essere. Oggi e domani.

Mi dico che sono uscita. È il mio compleanno. 

Sono ancora qui e rimarrò per sempre qui dentro. 

Francesca Scotto di Carlo

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Illustrazione di Francesca Scotto Di Carlo

  

Francesca Scotto di Carlo

Ventinove anni, napoletana. Di sé dice di essere un «cumulonembi», testarda, indistruttibile, assertiva. Scrittrice, umanista, attivista, è una di quelle persone con la voglia di cambiare il mondo, un passo alla volta.
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