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L’Assente, Mariangela Plutino

Nell’arco temporale che va dagli anni del dopoguerra fino ai giorni nostri, s’insinua in un paesino di provincia a Reggio Calabria, una storia familiare, vista dalle Donne. Una di queste donne è l’Assente, esclusa dalla vita stessa e anche dalla storia di famiglia. L’Assente di Mariangela Plutino, edito dalla Graus Edizioni, l’autrice conosce perfettamente la realtà di questa storia cruda e testimonianza sociale.

La mattina della vigilia di Natale un anziano signore dagli occhi azzurri, legge un annuncio, quest’annuncio gli provoca emozioni turbolente, perché non sa chi sia quella quarta figlia della famiglia Laurendi, che è morta.

È la storia di una donna assieme alle altre donne, più sfortunata delle altre, lei che dalla vita non ha ricevuto niente. Parliamo di queste donne emancipate, ma che anche troppo emancipate potevano subire una malasorte, la strada verso il manicomio.

Era la sorte per quelli che non si adattavano ai costumi sociali e morali di quell’epoca. Ci troviamo nell’Italia del dopoguerra, quell’Italia che a poco a poco cercava di rimettersi in sesto.

È proprio in questi anni che si profila la storia di una Donna, di una bambina per certi versi, la storia della bambina Fortunata Laurendi.

Il nome stride con il suo destino feroce.

“Lei sembrava diversa, perchè chiusa, solitaria, propensa al pianto, persa nelle sue fantasie, era una bambina fragile alla perenne ricerca di un affetto e di una protezione che non ebbe mai.”

Cosi viene descritta: fragile, diversa e senza affetto. L’unica persona che le donava un po’ di affetto in quella famiglia disagiata, calcolatrice, che versava in condizioni pessime, tutti si allontanavano da lei, perché diversa, anche le sue stesse sorelle. Le sorelle Pina, Angela e Giovanna, versavano in una complicità conchiusa nella loro camera, escludendo la sorella ‘strana’. Giovanna è la sorella che più la trattava male e il motivo del suo destino.

 L’universo femminile si fa forza in quest’Italia povera, andando a lavorare, al contrario di tante altre donne che preferivano non lavorare e dipendere dall’uomo.

Ma una di queste donne userà come un mantra, lo reciterà fino allo sfinimento a una delle sue figlie, di non appoggiarsi economicamente all’uomo, ma di concentrarsi sulle proprie forze.

È Annina la donna emancipata, in lutto per il proprio figlio, che prodiga premura per tutti, specialmente per Fortunata, è la Donna stimata da tutti ma allo stesso tempo vista come una donna strana.

“Fu una donna indipendente che visse del suo lavoro, in tempi in cui una donna che lavorava era vista come una stranezza. Con questo lavoro diede benessere alla sua famiglia per anni.”

Quella di Fortunata, la sua storia, lega il filo alle altre storie presenti nel suo palazzo, una storia interamente corale. Una testimonianza dell’Italia di quell’epoca, una testimonianza cruda e sociale, che ha come tema la malattia mentale, il beffardo e infelice destino capitato a quest’ultima.

La psiche di Fortunata ormai già al macero, vissuta senza affetto e senza amore neanche dalla sua stessa famiglia, tranne la signorina Annina che donava ogni un suo pensiero a lei e anche con doni. Il destino di Fortunata Laurendi si intreccia con l’intero rione, si può dire, la sua storia coinvolge tutti. Una bambina solitaria, mai uscita di casa, un giorno e per mano di un uomo e per la sua conseguenza, la sua stessa vita s’infrange in un attimo.

Fortunata e non di nome ormai divenuta madre, cerca in quella bambina la sua felicità, quella felicità mai conosciuta, si concentra sulla sua Adele, che per lei diventa quella bambola che da bambina gli era stata strappata dalla crudele sorella. Il manicomio dona a Fortunata tutti gli anni più belli, la considerano una schizofrenica e li ripete gesti meccanici, come quello di accudire la propria bambina perduta.

“Il manicomio divenne, come per altri, il meccanismo di distruzione di un’identità già malsicura. Ma sulla sua emarginazione psichica ebbe un peso anche quella femminile in tempi in cui certe conquiste erano di là da venire, e le donne venivano rinchiuse in manicomio per comportamenti spregiudicati, per liberi costumi, per abusi sessuali subiti o per depressione post-partum allora praticamente sconosciuta.”

Emilia Pietropaolo

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La Redazione

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