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Il Cono d’Ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare

Dal 25 giugno al 25 agosto 2022 il Maschio Angioino di Napoli ospita la mostra Il Cono d’Ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare, dedicata a Lidia Curti, co-fondatrice del Centro Studi Postcoloniali e di Genere di Napoli. 

L’esposizione, curata da Marco Scotini, direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea, prende forma da un progetto di Black Tarantella e FM Centro per l’Arte Contemporanea, in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, con il patrocinio della Regione Campania, del Comune di Napoli e della Mostra d’Oltremare.

La mostra si presenta, già nelle pratiche di raccolta ed esposizione dei materiali, come un progetto orizzontale di ripensamento critico del passato coloniale italiano, una pagina di storia che nel corso degli anni è stata oggetto di numerosi tentativi di riscrittura da parte dello sguardo bianco non innocente.

Il Cono d’Ombra lascia parlare, fa venire pian piano alla luce quelle istanze non occidentali di negazione, dis-identificazione dallo stereotipo e dalle dinamiche di sapere/potere bianche.

Da qui la scelta di esporre i lavori di dodici artisti contemporanei appartenenti alla diaspora africana mettendoli in dialogo con materiali d’archivio storico, cartoline, fotografie, manifesti e tele d’epoca coloniale in un luogo, il Castel Nuovo di Napoli assolutamente non casuale.

La mostra dialoga criticamente con la Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale tenutasi al Maschio Angioino intorno al 1934-1935.

Ricordiamo che Napoli si presentava all’epoca come un centro nevralgico sia a livello geografico sia sul piano culturale, basti pensare alla presenza in città della Società Africana d’Italia e dell’Istituto l’Orientale.

L’esposizione degli anni Trenta, a Napoli, si caratterizzò in particolare per l’invito rivolto a otto pittori italiani di dipingere dal vivo le colonie e la vita che vi si svolgeva, perpetrando così quell’apparato di dominio culturale fascista che sotto la mitologizzazione di un presunto originario gusto per l’esotico e l’orientale persegue la sua politica coloniale razzista.

Il Cono d’Ombra, date queste premesse, si presenta come un tentativo di ridiscutere dall’interno di questo contesto storico certe narrazioni violente e tese all’autoassolvimento di una pagina di storia che pesa ancora troppo sul presente.

L’esposizione si apre nell’Antisala dei Baroni al primo piano, dove, appena entrati, ci si trova di fronte ad una gigantografia di una foto dell’ingresso della Seconda Mostra d’Oltremare accompagnata da un ricco corredo di materiali d’archivio tra cui cartoline, cataloghi, ritagli di giornale, spille d’epoca fascista a ricostruire archeologicamente la genealogia storico-morale della narrazione occidentale dominante.

Completa la ricostruzione storica la serie di dipinti e studi di artisti ottocenteschi come Cesare Biseo e Augusto Valli e di quei pittori invitati a ritrarre la vita delle colonie in diretta nel corso degli anni Trenta come Gaetano Bocchetti e Giuseppe Casciaro, opere già esposte alla Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale.

Maurizio Rava, Mercato indigeno ad Asmara, 1931-1935

In questa prima sala a squarciare l’omogeneità rappresentativa bianca intervengono delle opere di artisti africani contemporanei, con lo scopo di creare una fenditura attraverso cui farsi spazio e fuoriuscire dalle fitte trame della storia narrata dai dominatori e progettare nuovi spazi di autorappresentazione e autodeterminazione dell’alterità.

Una prima contronarrazione frammentaria rispetto al materiale storico “ufficiale” è quella che emerge dalle opere su palinsesti tubolari di Nidhal Chamekh dal sapore di graffiti metropolitani e dai manifesti di Jermay Micheal Gabriel, che ripensa criticamente la considerazione e l’uso fascista dell’identità afro recuperando manifesti d’epoca su supporti materiali degradati come carta e legno bruciati.

Nidhal Chamekh, Exil I, 2019
Jermay Micheal Gabriel, Manifesti, 2022

Le operazioni artistiche di decostruzione degli stereotipi identitari e di messa a nudo dei meccanismi di violenza razziale proseguono in chiave di genere con i lavori di Amina Zoubir, Pamina Sebastiao e Kiluanji Kia Henda.

I due collages di Amina Zoubir fanno da controcampo alle ideali sculture femminili in bronzo di Mario Montemurro. L’artista, attraverso un’operazione di scomposizione e frammentazione dei corpi femminili, ne denuncia la violenza e l’ipersessualizzazione da parte di un sistema patriarcale bianco.

Amina Zoubir, The Fragility of a Trace, 2021
Amina Zoubir, The Golden Age- Reversed exploration, 2021

Sulla stessa linea di un presunto gusto “innocente” per il fascino esotico, si possono collocare una serie di cartoline raffiguranti nudi di donne africane che fanno del corpo femminile un punto sessualizzato dello sguardo bianco.

A fare da contraltare rappresentativo a queste fotografie, i lavori gender fluid di Pamina Sebastiao e la fotografia di Kiluanji Kia Henda che ritrae l’artista in una posa che richiama le figure femminili della pittura classica.

Evidente è la somiglianza con Olympia di Eduard Manet; si tratta di un’operazione piuttosto significativa che evidenzia lo iato in ambito artistico tra la rappresentazione di nudi femminili e nudi maschili quasi del tutto assenti.

Pamina Sebastiao, Death by Registration, 2021
Kiluanji Kia Henda, The Great Italian Nude, 2010

Proseguendo verso la terza sala ci si trova di fronte ad un fastoso trono imperiale etiope in legno dorato risalente alla prima metà del XX secolo dietro il quale si stagliano le installazioni di Ibrahim Mahama, ossia dei paramenti di sacchi di juta stracciati che così posizionati danno vita ad una riflessione dialettica sui rapporti tra potere e lavoro/sfruttamento.

Trono Imperiale Etiope, prima metà del XX secolo
Ibrahim Mahama, Untitled, 2013-2014 e Jsira-Sos, 2015

Il percorso che propone la mostra prosegue nella Sala dell’Armeria al piano terra: qui al centro dell’ambiente salta subito all’occhio la collezione di Poupée dell’artista Pascale Marthine Tayou che dialoga criticamente con i souvenir prodotti per la mostra d’arte coloniale del 1934-1935.

L’artista realizza delle figure composte dai materiali più disparati, da quelli organici ad altri più ricercati, come il vetro, che sottolineano l’idea di un’ibridazione dei materiali così come delle culture.

Pascale Marthine Tayou, Poupée Pascale

Restando al centro della sala possiamo osservare un libro in tessuto cucito a mano dall’artista Muna Mussie: Punteggiatura, prodotto della solidarietà della Scuola delle Donne che riflette quel lavoro di ricucitura interiore dato dal confronto e dalla condivisione delle proprie storie. 

Anche in questa sala la mostra prosegue secondo una logica dialettica e conflittuale che ne caratterizza i percorsi di lettura; all’interno di alcune teche sono esposti altri oggetti e materiali d’archivio come opuscoli, guide, giornali e pubblicazioni di presunto “interesse etnologico”.

A spezzare la pretesa innocenza di questi oggetti d’archivio intervengono i lavori di Délio Jasse, dei collages di immagini e documenti in forma archivistica che evidenziano lo sfruttamento economico e la violenza razziale fascista.

Délio Jasse, Facciamo conto di vedere le pantere se no che Africa è, 2021

Abbiamo cercato di descrivere a grandi linee il percorso della mostra per evidenziarne il tentativo di rileggere in controluce dalla parte e con gli occhi del Cono d’Ombra certe dinamiche storico-sociali, per poter ripensare nuovi spazi e discorsi elaborati non più dai privilegiati, ma da chi l’oppressione la vive ogni giorno.

Benedetta De Stasio

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Benedetta De Stasio

Filosofa per vocazione e plant mom a tempo pieno. Scrivo, coccolo gatti e mi piace cimentarmi in cose che non so fare, come dipingere, cantare e cucinare. Colleziono emozioni e frammenti di vita quotidiana. Credo nel vivi e lascia vivere e che piccoli gesti ed attenzioni possano cambiare il mondo.
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