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Falsari famosi e l’arte di prendersi gioco dell’arte

Alcuni si spacciavano per generosi filantropi, desiderosi di arricchire i musei, altri invece hanno messo a disposizione la loro “arte” per farsi beffe dei critici.

Studiosi dell’arte e collezionisti si imbattono spesso in opere contraffatte o imitazioni curate fin nei minimi dettagli.

Le statue e i quadri di questi artisti impostori sono così simili agli originali da aver lasciato a bocca aperta i più esperti di fronte alla amarissima verità: quello che, sotto lo scroscio di applausi entusiasti, avevano detto essere un Picasso originale era in realtà un falso.

La parola dovrebbe suscitare automaticamente un sentimento di indignazione, ma sono in tanti ad ammirare, invece, questi geni della truffa, che sono diventati famosi e hanno scritto anche libri sul loro operato.

Uno dei più famosi è Il Manuale del falsario, dell’artista inglese Eric Hebborn. La sua vita è stata sempre all’insegna della beffa: grande esperto della storia dell’arte e restauratore, non è mai stato “beccato” per le sue malefatte.

Dopo aver studiato all’Accademia delle Belle Arti a Roma, divenne molto noto nell’ambiente artistico, ma non vide mai apprezzate le proprie opere. Così decise di sfruttare l’ignoranza di ricchi antiquari, di cui disprezzava la stupidità ma amava il denaro.

Hebborn disegnava e dipingeva come i maggiori artisti del Rinascimento, sfruttando le proprie conoscenze e facendo leva sulla mancanza di cultura di quelli che lo circondavano, nonché sul loro ego: “ho trovato quest’opera, secondo te di chi potrebbe essere?”.

Con questo gioco, spacciò almeno un migliaio dei suoi quadri per opere di artisti famosi, cosa che lo fece diventare ricco. Ma mai nessuno lo scopriva: così, come un serial killer stanco di vedere i detective brancolare nel buio, uscì allo scoperto con una conferenza stampa, nella quale denunciò le sue frodi. Nessuno, tuttavia, poté mai condannarlo, essendo i suoi quadri delle opere totalmente nuove, create sullo stile dell’artista da imitare.

Mise in ginocchio tutti i critici d’arte moderna che gli avevano impedito di diventare un pittore, rivelando la loro mancanza di cultura e entrando allo stesso tempo nell’olimpo dei falsari. Con la sua solita vena ironica, andando ad una mostra di falsi in Inghilterra, esclamò indignato: “Non è giusto, non c’è nessuno dei miei quadri!”. Inutile dire che alla sua morte le offerte d’asta ed i prezzi per le sue opere schizzarono alle stelle.

Altra storia di vendetta contro il mondo dell’arte è quella dello statunitense Mark Landis. A differenza di Hebborn, questo commerciante d’arte caduto in rovina non si arricchì mai con le sue imitazioni, offrendo piuttosto i suoi Paul Signac e Louis Valtat come generose donazioni a piccoli musei sparsi negli Stati Uniti.

Per oltre vent’anni sparpagliò lungo la nazione le proprie opere, cambiando spesso indirizzo e identità (si finse addirittura un prete gesuita) per non essere scoperto.

Ma le sue imitazioni non erano ai livelli di quelle di Hebborn o di un altro illustre falsario, l’olandese Han van Meegeren, giudicato anche lui da giovane un pittore fallito. Grande ammiratore della pittura olandese del Seicento e di Jan Vermeer, creò sei imitazioni perfette, guardandosi bene dal copiare dipinti già esistenti.

Andava alla ricerca di vecchie tele del Seicento senza valore per poi applicare le tecniche di falsificazione di Theo Van Wijngaarden, anche lui falsario operante ad Amsterdam. Si vendicò così dei critici che lo avevano disprezzato e che, invece, ora acclamavano questi “ritrovamenti” straordinari. Riuscì ad ingannare anche Hermann Göring, generale nazista tra i più temuti, vendendogli il falso Vermeer dal titolo Cristo e l’adultera per una cifra enorme.

Dopo la guerra, nel 1945, Han van Meergeren fu processato proprio a causa di questo dipinto, con l’accusa di aver collaborato coi nazisti. Per scagionarsi, decise di autodenunciarsi come falsario che aveva venduto ai tedeschi dei dipinti non originali. Tutto ciò non convinse la giuria: così iniziò a dipingere nell’aula del tribunale una copia esatta del dipinto Gesù nel tempio, di fronte agli sguardi stupiti di numerosi esperti.

Una storia nostrana è, invece, quella delle famose Teste di Modì, una beffa raccontata anche da Caparezza in una sua canzone. Nel 1984 il comune di Livorno finanziò una scavatrice per ritrovare delle “teste” di Modigliani, sculture che, secondo una leggenda diffusa nel mondo dell’arte, il pittore avrebbe gettato nel Fosso Reale di Livorno perché insoddisfatto del risultato.

Dopo una settimana, vennero rinvenute delle sagome che sembravano proprio i celebri volti disegnati dal maestro. I critici urlarono al miracolo, ma, intimoriti dal clamore suscitato, dopo un mese tre studenti universitari si fecero avanti: pensando sarebbe stata subito riconosciuta come falsa, avevano gettato nel fiume una testa che avevano inciso loro, rivelando poi la loro tecnica in un’intervista.

Anche un altro scultore livornese, Angelo Froglia, a insaputa degli altri tre, aveva deciso di buttare nel fiume altre due teste. Voleva smascherare la cecità di molti esperti d’arte, che avevano frettolosamente giudicato quelle pietre scavate con il Black&Decker come dei capolavori ritrovati.

Elena Di Girolamo

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Elena Di Girolamo

(Madda)Elena Di Girolamo, classe ’96, si laurea troppo presto in Filologia Moderna, quando non sa ancora spiegare alla nonna a cosa servono i suoi studi. A mangiare è troppo lenta, ma è ingorda di libri, musica, fumetti, film e serie tv. Oscilla tra la convinzione di poter scrivere un best seller e la consapevolezza che mettere “leadership: 10” sul CV non le farà avere un posto da manager in Mondadori.
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