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Chi sei tu, creatura allo specchio? Anoressia ed altri disturbi da dismorfismo corporeo

La prima volta che mi guardai allo specchio e mi vidi grassa avevo dodici anni.
Vivevo in Florida, dove frequentavo la Olsen Middle School, ed ero completamente sola. 

Sola, sì, ma anche così mi sentivo di troppo.

Il mio corpo gracile di bambina, con le ginocchia sporgenti e appuntite, stava cambiando forma lentamente. Si preparava, seppur con grande anticipo, a diventare il corpo di una donna di 60 kg, il sedere grosso e le gambe in perenne lotta con la ritenzione idrica.

Non credevo, all’epoca, che questa trasformazione sarebbe mai dovuta accadere. Ma nemmeno sapevo, guardandomi allo specchio e trovandomi enorme, che lo avrei fatto sempre più spesso, fino ad ossessionarmici, a misurarmi, a volermi cancellare.

L’anoressia, dicono, è un disturbo alimentare che coglie ad ogni età, ogni genere ed orientamento sessuale. In particolare, tuttavia, ne cadono vittima le ragazze giovani, pubescenti o prepubescenti, quando vedono quell’involucro di carne che le identifica in quanto se stesse diventare un alieno. Peli, mestruazioni, tette, sedere: tutto cambia, senza che una ragazza possa avere il controllo alcuno dell’evoluzione del proprio corpo. 

L’adolescenza ti insegna che la vita è così: fa un po’ ciò che vuole lei, non puoi controllarla se ha deciso di prendere una direzione. 

L’adolescenza, purtroppo, è inevitabile ed ineluttabile. Ed il suo messaggio è: questo corpo lo puoi usare, ma non ti appartiene, appartiene alla natura. E alla natura, come Leopardi aveva capito molto tempo fa senza mai essere una ragazzina di dodici anni, non interessa assolutamente di te, di cosa ti piace, di se piaci a te stessa o ti fai schifo.

Insomma, non hai potere su nulla se dalla sera alla mattina possono crescerti, senza preavviso, due bozzi sul petto che la gente fisserà, giudicherà e commenterà per il resto della tua vita. 

Il senso di non avere potere su un corpo in cambiamento, quando avevo dodici anni, mi ha fatto ammalare di anoressia. Non un’anoressia devastante, al limite del suicidio, ma una anoressia subdola, ossessiva anche nel controllo di restare celata. Nonostante contassi le calorie dei cibi che inghiottivo, mi guardassi in ogni superficie riflettente, passassi ore in bagno cercando di vomitare anche quel po’ di calorie che mi avevano nutrito durante il giorno, nessuno si era accorto di nulla. 

Ero sempre stata magra, senza forme da preadolescente. Mi sentivo – e avrei voluto restare – una bambina. E anche se le rotondità in arrivo erano minime, non le riconoscevo come parte di me. Il mio corpo non corrispondeva all’immagine di me stessa che avevo in mente o che volevo proporre agli altri.

A mio avviso, il seno ed i fianchi erano paragonabili a dei tentacoli mostruosi apparsi sul mio corpo, rendendomi una piccola Cthulhu. L’anoressia era apparsa, insieme alla sua sintomatologia di dismorfismo corporeo, in un potente rifiuto della femminilità, della crescita, del cambiamento, del rischio insito nella vita in trasformazione. 

La solitudine e la cecità di chi mi circondava – e avrebbe dovuto occuparsi di me – fecero sì che la mia ossessione nei confronti del grasso corporeo (all’epoca francamente inesistente) durasse per un intero anno. Vent’anni dopo, sono conosciuta – e perculata – per il mio onesto, sano, incorreggibile appetito.

La domanda è: come si fa a guarire da quel loop pericoloso, quel pensiero ricorrente e reiterato, inarrestabile? La verità cambia di persona in persona, ognuno ha il proprio apotropaico per il veleno della vita. Il mio, per guarire dalla mia silenziosa anoressia, è stato l’essere vista. La mia lotta nascosta è stata svelata, amata, curata dall’amore di mia zia, poco più grande di me e conoscitrice di quella sofferenza inspiegabile, indicibile. 

L’amore, il riconoscimento, l’accettazione: tre step fondamentali di un processo difficoltoso e doloroso per chi soffre di dismorfismo corporeo, di disturbi alimentari e depressione. 

Sveva Di Palma

Foto in copertina di Giovanni Allocca

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Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.
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