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Un’equazione di famiglia ne “Il silenzio grande”

Un silenzio piccolo più un silenzio piccolo fa un silenzio grande. 

Grandissimo, e lo sa bene la famiglia Gassman.

Non è possibile dimostrarlo con un’equazione lineare, non sono sufficienti fiumi d’inchiostro, lettere e saggi di psicologia. Non si riesce a definirlo né oggi né ieri, il silenzio familiare non ha confini.

Si sa, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo e c’è un momento nella vostra vita in cui riuscite a metterlo a fuoco. È un po’ come la prima visita dall’oculista. Lo sgabello scomodo vi irrita. Spalancate le palpebre e le lacrime umettano gli occhi. Fissate la tavola optometrica e provate a indovinare lettere e numeri. Le lenti vengono riposte, una dopo l’altra, sulla montatura. Le tempie pulsano e le ombre si assottigliano ma dopo un po’, voilà!

I simboli non sono più sfocati.

Colori vividi balenano nello sguardo e non importa se il genitore sia Michael Scott o Lorelai Gilmore. È il vostro, al di là di tutto, e finalmente riuscite a vederlo nitidamente.

È ciò che accade in uno studio pieno di scaffali impolverati dove prende vita la sceneggiatura de “Il Silenzio Grande”. Una pellicola delicata, che immortala una famiglia disfunzionale: una madre e due figli che provano a perdonare il silenzio perpetrato del padre-marito.

Lui, Valerio Primic, celebre scrittore partenopeo dispone i libri sulle mensole per “omogeneità emotiva”. Quelli più intensi, come le poesie di García Lorca, sono come sospesi sugli scaffali più alti. La vertigine che si prova salendo è la stessa dell’anima. Lei, Rose Primic, moglie compita, cerca di riportare il marito con i piedi per terra, lo ragguaglia su l’imminente declino economico. Vuole vendere la casa, Villa Primic, un tempo abitazione lussuosa con vista su Capri. Loro, i figli Alessandro e Adele, custodiscono una memoria ferita. Addossano al padre le colpe d’una eredità culturale difficile da sostenere.

Valerio sembra l’unico a opporsi alla vendita della casa, spalleggiato dalla domestica Bettina che oppone all’introspezione del protagonista il pragmatismo di una donna che trasuda saggezza popolare:

“Il silenzio piccolo è quando pensi ‘devo assolutamente dirglielo’ e poi ‘no, non fa niente, meglio che mi sto zitto’. Un silenzio piccolo più un silenzio piccolo più un silenzio piccolo… fa un silenzio grande, e il silenzio grande fa paura.”

Bettina pronuncia queste parole perché il protagonista sembra vittima di un governo del silenzio che egli stesso ha generato. A turno, i figli raggiungono lo studio dello scrittore per raccontarsi. Ma non serve, l’incomunicabilità regna sovrana. Anni di parole mancate in cui Valerio non si è reso conto dell’omosessualità del figlio e degli amori della figlia con uomini molto più grandi di lei. 

No, non siamo in presenza di uno scontro generazionale tra il nichilista Bazàrov e il padre reazionario. Il silenzio grande non è un conflitto, è un rudere corroso dall’oblio.

Quante volte abbiamo pregato che i nostri genitori non siano come Frank e Monica Gallagher? E quante volte i nostri genitori avranno sperato di non avere figli come Dewey e Reese di Malcom?

Il grande silenzio esplora proprio queste aspettative familiari. Aspettative che, tradite, impongono tenersi tutto dentro: rancori, delusioni e disillusioni. Ma le colpe di genitori e figli possono essere riabilitate con il perdono?

Il perdono non è mai facile. Difficile è prendere sul serio il tragico dell’azione. Non è rimozione coatta delle colpe familiari o di qualche scheletro nell’armadio. Punta alla radice degli atti, alla fonte dei conflitti e dei torti. Non è come cancellare un debito sulla tabella dei conti, al livello di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere nodi.

Ed è proprio Alessandro Gassman, che di nodi da sciogliere con il padre Vittorio ne ha molti, celebre stella della commedia all’Italiana, a essere il regista del film. Uscito nelle sale lo scorso 16 settembre, la pellicola è la trasposizione dell’omonimo spettacolo teatrale che porta la firma dello scrittore partenopeo Maurizio de Giovanni, a cui lo stesso Gassman aveva lavorato. Molti volti noti della scena culturale napoletana popolano i pochi interni del film. Massimiliano Gallo interpreta l’austero Valerio Primic mentre Margherita Buy e i talentuosi Antonia Fotaras e Emanuele Linfatti interpretano rispettivamente Rose, Adele e Alessandro. Accanto a loro, una sontuosa Marina Confalone veste i panni della domestica Bettina.

Come spesso accade nelle opere di De Giovanni, sono le sensazioni e l’emotività a costruire l’innesco narrativo. Ricco di dialoghi serrati e arguti, l’opera pone, al termine della visione, un’annosa sentenza radicata nella cultura partenopea:

Vivere è na’ cosa ma esistere, senti a me, è tutt’altra storia.

Luigi  Celardo

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Luigi Celardo

Uno dei primi ricordi di cui ho memoria è legato alla scelta del mio nome. Mia madre decise Luigi per il richiamo regale, per mio fratello scelse Teo. Insomma: Re e Dio (le aspettative erano basse!) Ho ereditato la follia familiare (non la megalomania, fortunatamente). Dopo una laurea in ingegneria delle telecomunicazioni, ho deciso di specializzarmi nella comunicazione umana in ogni sua forma (addio transistor e resistori!) Cerco di comprendere i segreti del linguaggio bazzicando romanzi post-moderni, saggi di sociologia, pellicole della Nouvelle Vague e serie-tv comiche.
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