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Venom: Let There Be Carnage è una carneficina di divertimento firmata Marvel Entertainment

Venom: Let There Be Carnage è ufficialmente arrivato nei cinema italiani, dopo aver debuttato il 1 ottobre in America.

Il sequel di Venom – uscito nel 2018 – continua l’avventura cominciata tre anni fa con il giornalista Eddie Brock (Tom Hardy) e il suo personalissimo simbionte Venom (Tom Hardy). 

E molti di noi non vedevamo l’ora, dato che rara è stata tale la chimica tra un essere creato dal CGI e un attore in carne ed ossa nella storia del cinema.  Ma del resto Tom Hardy potrebbe avere chimica con un oggetto inanimato, figuriamoci con se stesso. 

Il secondo incontro con Venom, firmato dall’attore e regista Andy Serkis (sì, proprio lui, il nostro amichevole Gollum di quartiere, ci conferma ciò che avevamo pensato dopo il primo: funziona. Funziona la formula scelta dai registi e l’interpretazione di Tom Hardy, che attraversa il personaggio di Eddie dribblando machismi inutili e facendo lo slalom tra gli stereotipi. 

L’approccio depensante, il divertimento puro sono il cordone ombelicale di questa – si spera – trilogia che si estende trasversalmente tra i polpettoni Marvel (che amo e mi pesa definire “polpettoni”) e i primi tentativi falliti (ehm, ehm, Spider-Man 3 di Sam Raimi) di portare l’antieroe Venom nel mondo dei cine-comics. 

Se Venom ci ha portato a conoscere l’amato simbionte sempre in tensione tra il mangiare la testa a chiunque e salvare il mondo, il suo sequel ci fa trovare faccia a faccia con un altro personaggio molto popolare tra i lettori dei fumetti: Carnage.

Il simbionte rosso, figlio legittimo ma odiato di Venom, trova ospitalità nel corpo del serial killer Cletus Kasady (Woody Harrelson) per un binomio di follia ed esilarante raccapriccio. Venom: Let There Be Carnage è una aggiunta all’immaginario del mondo Marvel-Sony, a cui presto si aggiungerà il Morbius di Jared Leto. E sì, non si vede l’ora che esca anche quello. Insomma, dovrebbero far uscire tutti i film insieme senza lasciarci così, a languere nell’attesa di ciò che bramiamo. 

Il rapporto tra Venom ed Eddie, inoltre, è la storia d’amore che ognuno di noi vorrebbe vivere: imperfetta, passionale, tumultuosa, litigiosa ed infine tenerissima. Un matrimonio pieno di ostacoli, ma in cui, infine, trionfa sempre il reciproco amore e l’accettazione di un legame imperfetto ma funzionante. 

Non ci sono molti sottotesti, simbolismi, risvolti intellettuali in Venom: Let There Be Carnage, che nasce dalle intenzioni purissime di un cineasta esperto: farci ridere fino alle lacrime, dissacrare un genere rendendogli al contempo omaggio. Il disimpegno di qualità porta il cinema alle sue origini di svago, distrazione, estrazione dal mondo quotidiano e possibile. E per 90 minuti, mentre si guarda il cine-comic più breve della storia, ci si dimentica di tutto e si vive nella scombinata, disfunzionale vita coniugale di Eddie Brock e del suo dolce, affamato simbionte. Sfido chiunque a guardare il film e non trovarsi a desiderare il proprio Venom personale. Credetemi, è impossibile. 

Nota molto importante: restate in sala fino alla fine del film. Guardate la scena dopo i titoli di coda, con molta attenzione. Se non avete visto i film della Marvel, guardateli (e soprattutto, vergogna!). Se li avete visti, siete pregati di non urlare perché per godere della magia del cinema è necessario il totale silenzio. Urlate dopo, a casa, come ho fatto io (e come sto facendo ancora). 

Insomma, correte al cinema! Nessuna ragione può essere più valida per tornare al cinema se non un’ora e mezza di assoluto divertimento, azione eccellente e attori che mettono nel proprio lavoro la meraviglia dell’interpretare.

State ancora leggendo il mio articolo? No, dai, basta. Uscite, andate al cinema, riprendetevi il vostro posto di spettatori dell’arte, lasciatevi stupire, meravigliare, illudere. 

Sveva Di Palma

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Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.

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