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Venere e Adone: un viaggio tra le arti

La mitologia, si sa, di voce in voce è andata sempre più assestandosi nel testo scritto fino a raggiungere anche il mondo artistico e musicale.

Questo è il caso di Venere e Adone.

Il mito, di origine semitica, racconta di Adone, una divinità greca nata dall’amore incestuoso di Mirra con suo padre.

Mirra, non potendo più sopportare l’idea di soffrire per l’amore verso il padre, venne trasformata in albero e, dalla resina prodotta, nacque Adone. Fu trovato da Afrodite che lo aveva affidato da fanciullo a Persefone che non glielo restituì e così ci fu una contesa tra le due dee, invaghite dalla bellezza di Adone.

Zeus decise che egli doveva vivere un terzo dell’anno con Persefone, un terzo con Afrodite e un terzo da solo. Adone, però, preferisce trascorrere con Afrodite il terzo dell’anno a lui assegnato e viene ucciso da un cinghiale.

Pompei

Il mito, solcando i secoli, arriva nella letteratura latina.

Lo troviamo nel X libro delle Metamorfosi di  Ovidio che, però, non racconta del ritrovamento di Venere e della contesa con Proserpina.

Secondo la versione ovidiana, dopo la nascita Adone fu raccolto dalle Naiadi e con gli anni si distinse per la sua bellezza, tanto che Venere, colpita da una freccia di Cupido, se ne innamorò.

Adone era un cacciatore e la dea innamorata lo esortava ad essere prudente. Adone, però, si mostrò incurante. Infatti fu ucciso da un cinghiale che gli conficcò i denti all’inguine.

Venere – che era salita sul carro trasportato dai Cigni – mentre stava volando via sentì l’urlo mortale e tornò indietro. Lo vide in fin di vita e formulò una promessa: il ricordo del lutto sarebbe durato in eterno e il sangue diventato un fiore.

Adone fu quindi trasformato in un anemone e dalle lacrime di Venere sbocciarono delle rose.

Il mito approda nella letteratura italiana, nella Genealogia deorum gentilium di Boccaccio, che – tramite la traduzione dell’opera nel Cinquecento di Giuseppe Betussi – influenzerà il quadro di Tiziano.

Venere e Adone di Tiziano

Nel quadro abbiamo molte tessere di Boccaccio: vediamo in primo piano una Venere voluttuosa che abbraccia Adone pronto per andare a caccia; sotto all’albero, invece, un Cupido addormentato che però, prima, ha colpito la madre; e, ai piedi di Venere, l’anfora rovesciata, simbolo dell’ebbrezza amorosa e passionale.

La storia è tutta rinchiusa in questo abbracciamento in un bosco, che non è sensuale, non è un atto di voluttuosità da inserire in una scena eroica, è il momento in cui Adone sta per andare via e Venere gli dà l’avvertimento di stare attento.

Tiziano sceglie questo mito e lo legge dal punto di vista del suo pessimismo, puntando l’attenzione al dolore dell’uomo.

In questo quadro pessimista, però, viene tagliata la morte di Adone.

Dov’è, quindi, il pessimismo?

Semplice, è tutto in quel movimento: il dolore di Venere che tenta di fermarlo, lei che non ha voluto innamorarsi, su di lei incombe il fato di Cupido, neanche la dea è libera.

In questo abbraccio, nel tentativo di fermarlo, incombe il fato, su Venere e su Adone, che sta per morire.

Questo dolore è indicato dal cerchio di luci in alto, sulla destra, che rappresentano il carro di Venere.

Il carro anticipa il momento della morte e rinchiude tutto il dolore della dea che ritorna a piangere sul suo amato morente.

Perciò in questo quadro possiamo leggere tutto il pessimismo di Tiziano: non siamo liberi, su di noi c’è un fato che agisce su di noi e sulle divinità.

A questo mito si sono ispirati moltissimi altri artisti come Marino, Shakespeare, Canova ma anche la musica si è lasciata trasportare da questo tragico amore.

Sentiamo, infatti, Il giardino d’amore di Alessandro Scarlatti, una Serenata con tromba, soprano, archi e basso continuo composta tra il 1700 e il 1705.

La serenata si apre con una sinfonia in tre movimenti.

I personaggi della serenata sono due: Venere, interpretata da Derek Lee Ragin, contraltista e Adone, interpretato da Lina Akerlund, soprano.

L’opera descrive i due giovani pieni di vitalità e la bellezza della natura: boschi, campi, rocce.

Abbiamo, all’inizio, un ambiente bucolico e positivo, caratterizzato da una musica barocca.

Subito però ci accorgiamo che i due amanti sono lontani e si cercano, cantantando la loro lontananza.

Venere si lamenta della mancanza di Adone e si rende conto che gli elementi della natura circostante non hanno nessuna intenzione di svelare dove si trova. La sofferenza provata da Venere per il fanciullo è tale da non far a lei più percepire i naturali rumori della natura: Fronde immobili e onde che non mormorano, tacciano, crudeli, dove sia nascosto il caro Adone.

La situazione di Adone non è più felice di quella di Venere: già dal suo primo recitativo, ogni sua attività perde ogni significato, dopo che ha incrociato lo sguardo di Venere e girando, fra le selve, non si diletta più nell’arte della caccia, e l’ambiente bucolico non riesce a lenire la mancanza di Venere.

Inoltre, c’è un’aria di Adone dove oltre all’organico su descritto si staglia un ottavino, e dove in sottofondo si ascoltano i cinguettii degli usignoli.

Canto che non allieta più il giovane amante.

Come vi ho anticipato all’inizio, però, qui non vi è il pessimismo che dominava l’opera di Tiziano. I due amanti non cantano solo la loro lontananza, anzi, abbiamo anche due duetti “Tanto respira il core” e “Vola, vieni, soave contento” che è quello che chiude la serenata, con tutti gli strumenti ad arco, in ritmo allegro e un bel ripieno sonoro.

I due amanti, quindi, tra tanta sofferenza si incontrano nel giardino vivendo il loro amore.

Il mito, dall’oralità è passato alla scrittura, attraversando le epoche e sperimentandosi con colori e note.

La storia del giovane Adone e della dea Venere – musicata dal grande Scarlatti – si allontana dalle origini ma non dalla letteratura, rimandando alla memoria quei giovani amanti della Provenza nei loro vergier, proprio perché, secondo il compositore, la musica doveva essere d’accompagnamento e al servizio della parola.

Abbandonando la tragicità del mito e strizzando l’occhio alle canzoni occitane e ai loro incipit naturalistici, Scarlatti ci tramanda una Venere e un Adone innamorati, lasciandoci sognare questo luminoso amore.

Vola, vieni, soave contento

e ritorna la pace nel cor,

muta in gioia gli affanni ch’io sento,

in diletto la pena, il dolor.

Federica Auricchio

Vedi anche: Venere, mi fai cadere le braccia! O forse son le tue?

Federica Auricchio

Sono Federica Auricchio e mi definisco Napoletana dalla nascita, perché nel mio sangue ribollono la musica, la poesia, la bellezza, il comunismo e la felicità. Filologa da un paio di anni combatto le discriminazioni sociali con il sorriso e la penna, amo seminare in campi incolti perché è bello, poi, veder germogliare fiori rari.

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