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La casuale verità ne “Il castello dei destini incrociati”

Il castello dei destini incrociati è quel romanzo fantastico di Calvino in cui con un numero finito di elementi si possono creare un’infinità di cose e dove il caso racconta storie.

Quando si osserva il mondo e quando si cerca di scorgerne da esso un quantitativo effettivo di possibilità di cui essere fruitori, il soggetto che osserva ha due possibilità: osservare la loro oggettiva combinazione finita ed enumerabile, oppure credere che, in realtà, quel numero limitato di possibilità è solo materia grezza da cui creare o addirittura moltiplicare le proprie opportunità di scelta e, quindi, di azione.

Non so se la visione di un cartomante sia esattamente questa, ma sta di fatto che chi legge il futuro guarda oltre l’empirico e dunque l’oggettivo; il cartomante coglie l’opportunità di leggere un’infinità di storie attraverso un limitato numero di carte che compongono i Tarocchi.

Attraverso questa coltre di casualità, combinazioni e misticismo, Calvino ha certamente colto la sua possibilità di scrivere un romanzo fantastico, poi pubblicato nel 1969. Di gestazione alquanto tormentata, “Il castello dei destini incrociati” è stato concretamente realizzato in seguito alla richiesta dell’editore Franco Maria Ricci. Con la richiesta, infatti, Calvino ebbe la possibilità di riprendere un suo lavoro non compiuto, anzi abbandonato. Il motivo della proposta dell’editore all’autore stava nell’idea di accompagnare con il libro una lussuosa edizione di un mazzo di tarocchi del XV secolo, noti con il nome di Tarocchi Visconti-Sforza. La fattezza del racconto, in termini materiali, doveva dunque essere quella di un originale libricino di accompagnamento, da realizzare in un centinaio di pagine circa.

Il romanzo, pertanto, si presenta secondo dei canoni non ordinari: è una raccolta di 12 racconti, divisi in due diverse sezioni, che sembrano scaturiti da una serie di combinazioni di carte, all’occorrenza riprodotte su quasi tutte le pagine. Si presenta come un’opera di una complessità tale sia dal punto di vista narrativo che linguistico, perché la narrativa si intreccia con la metanarrativa, il linguaggio con il metalinguaggio.

Sono racconti, quindi, che sembrano prendere forma in due spazi e in due momenti differenti: l’opera si articola in due parti, nonché in due ambientazioni, ovvero in un castello e poi in una taverna, da cui prendono il nome le relative sezioni del romanzo.

Nonostante la netta separazione tra i due luoghi dove prendono vita i fatti, essi appaiono l’uno speculare dell’altro: le scene, infatti, sono analoghe a eccezione di qualche differente e caratteristico dettaglio, come il «desco illuminato da candelieri» nel primo caso e la «tavolata» nel secondo. 

Dettagli pratici a parte, per il lettore che si immerge nella lettura di questo innovativo romanzo senza precedenti, è chiaro che ci sia un costante ritorno ad elementi già noti in passato. La genialità di Calvino, infatti, sta nell’aver colto elementi molto cari alla tradizione letteraria e di averli trasposti in un contesto narrativo del tutto sperimentale. È facile cogliere aspetti del tutto familiari alla tradizione arturiana, ma anche a quella ariostesca e perfino dantesca. Ad apertura di ognuna delle due parti del romanzo, il protagonista, autore e narratore della storia principale, è nel buio di un bosco e il tessuto sociale, in cui egli è immerso, è la cavalleria: «In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti».

È un racconto nel quale sono stati intessuti altrettanti racconti, narrati da altri personaggi, che però hanno perso la parola a causa dell’oscurità del bosco. Tuttavia, allo stesso tempo, questi sentono il bisogno impellente di comunicare e lo fanno per mazzo dei tarocchi, allegoria della voce: «Terminata la cena in un mutismo che i rumori della masticazione e gli schiocchi nel sorbire il vino non rendevano più affabile, restammo seduti a guardarci in viso, con l’assillo di non poterci scambiare le molte esperienze che ognuno di noi aveva da comunicare»

Il caso

Data l’assenza di parole, ogni narrazione, di cui l’autore è spettatore, è puramente metalinguistica. Essa, infatti, è realizzata mediante la ricerca spasmodica delle giuste carte a cui lo spettatore deve dare il giusto significato. Pertanto, l’uso del codice linguistico non è tanto arbitrario quanto lo è la ricerca delle giuste parole; al contrario questa silenziosa narrazione è data dalla sorte, che è la totale responsabile delle associazioni simboliche.

Certamente, come gli eroi della mitologia greca, ogni personaggio cerca di essere padrone della sorte della propria storia, o almeno nella narrazione. Ma anche nella narrazione stessa, per quanto ciascuno di loro si affanni, si azzuffi e cerchi di farsi spazio per trovare la giusta carta, la narrazione non risulta mai di completo dominio di chi la racconta. Come nella mitologia, appunto, sembra esserci la dea Tyche (in greco antico Τύχη, Týchē da τυγχάνω, ovvero ‘accadere’) a condurre la storia: «Ci mettiamo le mani sopra tutti insieme, sulle carte […] cerco di riconoscere cosa mi è successo e di mostrarlo agli altri che intanto sono lì e che cercano nelle carte pure loro, e mi mostrano col dito una figura o l’altra, e niente va bene con niente, e ci strappiamo le carte di mano, e le spargiamo per il tavolo».

Pasqualina Perrotta

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Lina Perrotta

Sono nata nel ‘94, quando ormai le tastiere avevano già sostituito le macchine da scrivere. Mi piacciono le polaroid sbiadite, le prime foto bruciate di un rullino montato al sole, le pagine ingiallite di un libro, quelle vecchie poltrone di velluto e i silenzi tra le parole. Sono una filologa moderna ma anche un po’ linguista. Ho sempre una penna scarica in borsa e un cellulare tra le mani. Divoro film, libri, dischi e faccio foto sbagliate ai tramonti giusti.

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