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Genio e perversione: da Gauguin a Woody Allen, il lato oscuro dei maestri dell’arte

L’antica, ma sempre attuale, diatriba sui criteri di valutazione dell’arte sembra non trovare mai risposte definitive.

Si rinnova nei secoli tra svolte pittoriche, rivoluzioni del linguaggio cinematografico e clamorosi successi letterari, imponendo puntualmente un urgente ripensamento della fruizione estetica.

E ogni qual volta le torbide malefatte degli idoli del pantheon dell’arte vengono a galla ci si chiede “è giusto scindere l’opera dall’artista?”. 

Ce l’ha imposto Paul Gauguin nel 2019, con l’inaugurazione della mostra Gauguin Portraits alla National Gallery di Londra. Proprio lui, quel sacerdote del simbolismo pittorico che si è spogliato delle trivialità di un occidente materialista e si è vestito dell’aura variopinta dei mari del Sud, come un San Francesco Tahitiano in comunione con la naïveté. 

Dietro la candida effigie di chi ha fatto della purezza e della frugalità il principio delle sue creazioni, sembrerebbe infatti nascondersi un’anima non troppo linda. La rassegna londinese ha gettato luce sui lati oscuri di una  personalità ambiguamente sinistra, che avrebbe sfruttato la sua supremazia occidentale per esercitare un controllo paternalista sui corpi mulatti delle giovanissime donne (probabilmente minorenni) ritratte nei suoi quadri. 

Da qui si sarebbe insinuata l’inquietante ipotesi di stupri, atti sessuali consumati senza il battesimo del consenso femminile, e l’idea di una rappresentazione spersonalizzante di queste “madonne nere”, etichettate come “creature barbare”, soggetti artistici senza dignità che incarnano lo stereotipo razzista del buon selvaggio alla mercé del colonizzatore europeo. 

Sopraggiunge quindi il domandone a cui è difficile rispondere a monosillabi: è giusto per questo ripudiare, a posteriori, il lascito inestimabile che questo poeta visionario del colore ha donato alla storia dell’arte mondiale?

È lecito condannare i suoi quadri così lodati, anatomizzati ed imitati per generazioni,  ora che la sua immagine è compromessa da una presunta accusa di pedofilia

Altro esempio calzante è il caso Polanski, regista polacco dal passato tormentato e autore di capolavori come Rosemary’s Baby e Cul De Sac, già nel 1977 accusato di violenza ai danni della tredicenne Samantha Gailey negli Stati Uniti, Paese a cui non ha più accesso.

Un caso riemerso a distanza di anni con Valentine Monnier, fotografa, modella e attrice che ha sciolto il silenzio dopo l’ultima fatica del regista intitolata J’accuse, pellicola sulla vicenda del capitano Alfred Dreyfus che ha risuonato negli anni come il fallimento giudiziario per eccellenza nella storia occidentale. La donna avrebbe infatti confessato a Le Parisien il violento stupro subito quarantaquattro anni prima, dopo anni di traumatica convivenza con quel ricordo per troppo tempo taciuto, spinta proprio dall’assurda libertà di Polanski nel muovere un atto d’accusa a lei invece mai concesso. 

Dopo la notizia degli abusi è quindi davvero possibile riuscire a vedere L’ufficiale e la spia a cuor leggero, senza lasciarsi scalfire da un senso di disagio per le violenze commesse dall’autore? Si può  omettere questo “dettaglio” della sua vita privata per l’irrinunciabile desiderio di vedere un suo film? 

Last but not least c’è Woody Allen con una pesante accusa di violenza a “indorare” il suo curriculum: un abuso commesso nei confronti della figlia minorenne Dylan Farrow, emerso in coincidenza con l’uscita di A Rainy Day in New York, debutto in sala  compromesso appunto dalla diffusione della sconcertante news . 

A tal proposito, dai diari che il regista stesso ha ceduto ai ricercatori, sarebbe emersa una diagnosi di psicoreato, un’attrazione distopica per donne troppo giovani che sembra ricordare capolavori della letteratura novecentesca come la Lolita di Nabokov. Da qui il disagio di alcuni cultori dell’autore di Manhattan, visto che non pochi avrebbero vissuto questa rivelazione shock quasi come un tradimento subito da una persona cara, non riuscendo a gustarsi come prima le nuove pellicole di quel prestigiatore della parola che ha plasmato il senso dell’umorismo di intere generazioni di cinefili. La stessa Kate Winslet si è detta pentita di aver lavorato con lui, condannando amaramente l’indulgenza controproducente che l’industria culturale concede in simili casi. 

Proviamo quindi a fare chiarezza!

Denunciare in modo blando comportamenti dubbi di personaggi dello showbiz per tenere vivo il focus sul prodotto creativo piuttosto che sull’autore non significa forse abdicare alla responsabilità educativa e all’influenza che l’arte e i suoi rappresentanti esercitano sulle vite dei suoi fruitori? Non sarebbe opportuno che le case produttive, in primis, prendessero le distanze da simili comportamenti, per evitare che atti violenti possano essere legittimati, tutelati economicamente o emulati nella quotidianità da altri? 

Se infatti negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza nel dibattito pubblico su atteggiamenti che non vengono più normalizzati come in passato, essendo cambiati – per fortuna, aggiungerei –  i canoni di accettazione nei circuiti artistici, spesso si tende a negare, giustificare o addirittura fare apologia delle azioni aberranti di icone dello star system pur di legittimare l’apprezzamento di un’opera. Risulta infatti faticoso accettare che ciò che amiamo è figlio di distorsioni dovute alle autorevoli personalità che si celano dietro una creazione artistica che hanno temprato il nostro gusto negli anni e tracciato le nostre coordinate nella geografia della produzione cinematografica, musicale e letteraria. 

Se dunque difendere l’arte per l’arte significa farlo a discapito di soggetti violentati nella loro umana dignità , oltre che fisicamente, dovremmo forse ripensare il confine della nostra accettazione. Dovremmo porci all’ascolto di chi non si sente a proprio agio con un prodotto culturale e l’idea che esso veicola, come i tanti artisti contemporanei di Haiti, che stanno faticosamente tentando di riscattare la loro identità dall’immagine deformata proposta da Gauguin, offrendo al fruitore una visione alternativa a quel fascino esotico e vergine tanto idolatrato nei suoi quadri.

Dovremmo sviscerare gli effetti che un’opera esercita sulla comunità e interrogarci sul nostro privilegio nella fruizione, perché non tutti possono concedersi di ignorare cliché razzisti, stereotipi e violenze legittimate visivamente in un quadro, tra le pagine di un romanzo o in un dialogo di un film.

Dovremmo valorizzare e supportare (anche materialmente) chi propone una rilettura critica della storia, un’interpretazione inedita del passato, che non significa fare damnatio memoriae, cancellando dalla narrativa canonica quegli illuminati che la storia l’anno scritta, ma promuovere prospettive altre rispetto a quelle da sempre riconosciute e formulate in un’ottica più lucida rispetto alle esigenze contemporanee. 

Francesca Eboli 

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Francesca Eboli

Spirito irrequieto made in Naplulè che colleziona fissazioni dal 1995: andare a cinema e a teatro da sola, scovare boutique vintage invisibili e bazzicare posticini senza tempo. Laureata in lingue, scrive, recita e nel tempo libero vaga tra i quattro angoli del mondo con Partenope in tasca. Vietato chiederle cosa vuole fare da grande.

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