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Two Distant Strangers è il corto di Netflix candidato agli Oscar di cui avevamo bisogno

Ne avevamo bisogno, ma non lo sapevamo.

Credevamo che dopo George Floyd, Breonna Taylor, #blacklivesmatter la questione fosse chiara, evidente. Ma non era così, almeno non ancora.

Avevamo necessità del corto di Netflix Two Distant Strangers per poterci davvero immedesimare.

In grado, questo corto che si proietta in soli 30 minuti, di farci immedesimare così bene da meritare una candidatura agli Oscar 2021. E così profondamente toccante, importante, da renderci tutti afroamericani, perfettamente calati nella paura quotidiana di chi nasce con una sfumatura di pelle più scura. Una casualità totale, eppur significativa, tanto da condizionare un’intera esistenza, definendola dalla nascita alla morte.

Ed è la morte il personaggio che investe e comanda la narrazione per 32 minuti sullo schermo, nascondendosi dietro il dramedy e la science fiction. Ma la morte di chi? Chi è il corpo sacrificale di tutti gli afroamericani e di chiunque non abbia la pelle “bianca”?

Il regista e sceneggiatore Travon Free ha scelto di rendere colpevole e contenitore il corpo dell’illustratore Carter James (interpretato dal rapper Joey Badass). Un corpo di uomo scuro, prototipo di una fisionomia familiare, un trentenne di discendenze lontane, africane, ma chiaramente americano nel midollo. Joey Badass, infatti, ha i natali a Brooklyn, New York. Ma non sembra così pensarla l’agente Merk, il poliziotto caucasico che ammazza Carter James non una, ma due, tre, dieci, cento volte in loop.

Il loop temporale in cui Carter è intrappolato e lo costringe a vivere (e a morire) lo stesso, terribile giorno. Un giorno che comincia nel letto ancora caldo della notte d’amore con la bellissima ed ironica Perri e finisce, sistematicamente, all’altro mondo. L’agente Merk uccide Carter in ogni modo possibile, trovando ogni scusa plausibile ma soprattutto implausibile. Lo uccide come è stato ucciso George Floyd, come Breonna Taylor, come Eric Garner. Il poliziotto bianco uccide l’uomo nero, sempre, non importa cosa lui abbia fatto o non fatto. La colpa di essere è un motivo valido.

La morte ingiustificata di Carter è lo specchio di una malattia sociale le cui radici sono perdute nel tempo e circoscritte nello spazio, all’Occidente coloniale e alle sue deviate declinazioni. Una morte, come le altre sopracitate, probabilmente inutile e insensata. Perché l’utilità di una azione, di un evento – per quanto tragico – si osserva nelle sue risonanze storiche, nell’eco che si ripercuote sul presente attraverso le ere. Ma la morte di Emmett Till – brutale e barbara – negli anni ’50 non ha di certo impedito quella altrettanto violenta di George Floyd negli anni ’20 del 2000. E dunque, possiamo affermare con certezza che i poliziotti bianchi, dalla loro storia, non hanno imparato a vestire i propri stessi panni e a rispettare gli ideali che essi rappresentano. Il corto di Trevon Free serve a ricordare le vittime – per lo più innocenti – del pregiudizio razziale attraverso uno sguardo propositivo e rassegnato al contempo.

Uno sguardo registico che non si risolve nella trama del corto, ma guarda oltre, ad un seguito ideale che non accade sullo schermo ma – piuttosto – nella vita vera. Lo scopo di Carter, in fondo, è solo uno: tornare dal proprio amato cucciolo di pitbull, vivo. E la sua determinazione, il suo amore per una creatura pura come un cane, è il punto fermo dell’intera narrazione. In un modo o nell’altro, Carter deve tornare a casa, a mantenere quella promessa d’amore e di cura che si pattuisce reciprocamente con un animale domestico. Lo spettatore non può che tifare per Carter, affinché il suo desiderio di normalità possa realizzarsi e il dolce Jeter possa rifugiarsi tra le sue braccia, al sicuro.

Una regia, unita ad incredibili interpretazioni, rendono il corto una piccola perla offerta da Netflix, profonda e dolorosa, la ferita aperta del mondo contemporaneo.

Buona visione!

Sveva Di Palma

Vedi anche: The Serpent: la potente Limited Series da non perdere su Netflix

Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.

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