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Con gardenie e di strani frutti, cantava Billie Holiday

Accarezzata dal silenzio, una voce profonda e malinconica risuona al Cafè Society di Greenwich nel 1939.

Finalmente è tempo di rivoluzione!

Billie Holiday, fu sì tra le più grandi cantanti dei generei blues e jazz, ma la sua vita non fu di certo tranquilla.

Numerosi problemi hanno dominato la sua carriera, primo fra tutti quello del colore della pelle. 

Fin da piccola fu costretta a fare a botte col dolore, vincendo poco e incassando spesso. A dieci anni venne violentata, decidendo poi di scappare per raggiungere la madre a New York. Per lavorare iniziò a prostituirsi in un bordello clandestino di Harlem ma quando la polizia lo scoprì, Billie venne arrestata.

Uscita di prigione, le cose non cambiarono granchè. Una grande macchia sembrava essersi incrostata nella sua vita. Tornò alla vita di sempre, provando la strada del ballo. Pur non essendo in grado di ballare, venne assunta per la sua voce, debuttando così come cantante nei club.

«Si imponeva per la sua voce intensamente drammatica, per la capacità di “volare” sul tempo e per l’emozione che sapeva trasmettere anche su testi banali» dice Adriano Mazzoletti nel 2009 in La voce del jazz.

Fu il periodo in cui il pubblico cominciò a chiamarla “Lady Day” (la signora Day), perché si rifiutava di ricevere le mance dei clienti, come facevano tutte, infilate tra la calza e la coscia.

Holiday era un’artista costretta a guadagnarsi con fatica ogni singola incisione e fu la prima tra le cantanti nere ad esibirsi per un pubblico bianco – il Cafè Society era uno dei pochi locali in cui i neri potevano sedere al fianco dei bianchi.

Ma quando costa l’approvazione e il consenso sociale?

Billie aveva l’ordine di restare in camerino fino al momento della sua esibizione e se anche avesse indossato la gardenia più bella del giardino, dietro le quinte restava sempre una “negra”. 

La sofferenza e lo sconforto di questi momenti la spinse alla più rovinosa delle soluzioni: dalla marijuana all’eroina, e la sua voce ne risentì in breve tempo. 

Nonostante tutto Holiday riesce a collaborare con grandi artisti, passa alla radio, si esibisce in molti locali newyorkesi ed è una delle poche che riesce a conquistarsi un tour negli Stati del Sud, dove subisce le più avvilenti umiliazioni. 

Fu nel 1939 che sfidando ogni discriminazione razziale entrò nella hall of fame del coraggio black, scegliendo di cantare alla chiusura di un suo concerto il brano Strange fruit.

«Non c’era nemmeno un leggero applauso nell’aria all’inizio, poi solo una persona ha iniziato a battere nervosamente le mani e così tutti gli altri l’hanno seguito» scrive la Holiday nella sua biografia.

Le sue esibizioni non sarebbero state più mero intrattenimento, ma una protesta. La sua interpretazione quella sera fu così chiara e avvolgente che pareva quasi di trovarsi lì, davanti ai corpi martoriati e mortificati degli stati del Sud, ma fermi, inermi e senza fiato.

Strange fruit racconta una storia terribile, quella di un corpo impiccato ad un albero, il cui odore è un misto di carne bruciata e fiori. La cui forma non è definita, la cui anima è uccisa.

Il suo autore era Abel Meeropol, un ebreo-russo scrittore, compositore e comunista rimasto sconvolto da una foto che ritraeva il linciaggio di Thomas Shipp e Abraham Smith avvenuto nell’Indiana nel 1930. 

Fu Billie, che aveva incontrato Meeropol al Café Society, a inciderla per la prima volta con la piccola casa discografica Commodore Records, e a infonderle quella forza e quel significato necessario ai più, che oggi diventano i troppi. 

Come scrisse nella sua autobiografia, la canzone le ricordava la morte del padre, avvenuta per mancanza volontaria di cure da parte dei servizi ospedalieri. Quel brano, per lei, scoprì tutte le carte in tavola e risvegliò, come sapeva, il dolore dalla sua gente.

Fu in quel momento che l’Fbi iniziò a depistarla e renderle la vita impossibile: le fu obbligato di non eseguire più quella canzone in pubblico. 

Ma quando la verità comincia a farsi strada, le bocche incitano e le orecchie si moltiplicano. 

Billie continuò a cantarla, anche in Alabama, centro pulsante del segregazionismo, entrando in un vortice dalla quale non sarebbe più uscita e non avrebbe mai più preso aria, fino alla morte.

Strange fruit si è fatta strada spintonando tra la folla e gli increduli delle piazze e ad oggi è uno dei sound simbolici delle battaglie per i diritti dei neri.

E lei, decisa, guerriera e fragile. 

L’immortale Billie Holiday, una gardenia bianca mai sfiorita dalla lotta.

Serena Palmese

Vedi anche: Storia di come Quentin Tarantino mi ha deviato il cervello

Fonte immagine: https://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2015/05/18/news/billy_holiday-114630710/ 

Serena Palmese

Mi piacciono le persone, ma proprio tutte. Anche quelle cattive, anche quelle che non condividono le patatine. Cammino, cammino tanto, e osservo, osservo molto di più. Il mio nome è Serena, ho 24 anni e ho studiato all’Accademia di belle Arti di Napoli. Beati voi che sapete sempre chi siete. Beati voi che sapete sempre chi siete.

1 commento

  1. Grazie per avere condiviso questo sunto della vita di Billie Holiday dove emerge un’anima così martoriata e seppur sfinita tanto combattiva.
    Questa interpretazione seppure breve è assolutamente di un intensità disarmante… un dolore che commuove.

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