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Le notti bianche di Dostoevskij: la “vita pensata” nel racconto russo più attuale che mai

Vi siete mai chiesti perché noi lettori moderni amiamo leggere i grandi autori classici?

La risposta è semplice: perché ci somigliano.

Condividiamo con gli autori del passato, in particolar modo con quelli che hanno scritto durante la seconda metà dell’Ottocento e per tutto il secolo scorso, pensieri che sono affini e molto vicini a noi quali il disincanto, l’alienazione, l’evitamento, il sogno, la “paura di vivere”.

Dopo due letture e l’ascolto di un audiolibro credo sia arrivato il momento di condividere con qualcuno le duecento pagine che mi hanno colpita in modo particolare e che, nei diversi momenti della mia vita in cui le ho lette, mi hanno portata a provare sentimenti diversi e contrastanti.

Sto parlando di Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij, racconto giovanile dell’autore pubblicato nel 1848. L’opera prende il nome dal periodo dell’anno che va sotto il nome di, appunto, Notti bianche, in cui nella Russia del Nord il sole tramonta dopo le ventidue.

Il racconto è ambientato a San Pietroburgo, dove l’autore ha vissuto ed è morto nel 1881.

Il protagonista, che chiameremo il sognatore, vive tra la strada che costeggia il fiume e la sua casa senza intrattenere alcun rapporto con gli altri se non con la sua domestica, vivendo la sua esistenza tra sogno e paura di vivere. Vede gli altri, immagina la loro vita, crea trame e le disfa, ma mai osa avvicinarsi.

“Perché già in quei momenti comincio a pensare che non sarò mai più capace di vivere una vita reale, perché mi è già sembrato di aver perduto ogni sensibilità, ogni fiuto per ciò che è vero e reale; perché, infine, ho maledetto me stesso; perché, dopo le mie fantastiche notti, mi colgono dei momenti di ritorno alla realtà che sono terribili!”.

Essere un sognatore per il nostro protagonista è come vivere in simbiosi con i propri pensieri, fare del proprio pensiero una casa ed un rifugio, proprio come una tartaruga o come tutti quegli animali il cui guscio funge da riparo.

Il sognatore, durante una delle sue tante passeggiate notturne, incontra una ragazza diciassettenne di nome Nasten’ka che risveglia in lui un sentimento assopito da tempo, quello dell’innamoramento.

Il racconto si svolge in quattro notti, durante le quali i due si incontrano e si raccontano: il sognatore racconta alla giovane del teatro della sua vita fatto di solitudine, distacco dalla realtà, sogno che rimanda la vita. Nasten’ka dal canto suo gli parla del suo rapporto con la nonna, un rapporto abusivo da parte di quest’ultima, che arriva addirittura a legare il vestito della nipote al suo con uno spillo.

Le notti con Nasten’ka suscitano nel protagonista un sentimento reale, un coinvolgimento non immaginato, non illusorio ma per la prima volta dopo molto tempo reale.

Tra l’attesa della vita e la paura stessa di vivere il racconto porta il lettore in una dimensione fatta di sentimenti contrastanti: familiarità ed angoscia.

La paura di vivere, l’evitamento, l’incapacità di aprirsi agli altri in maniera profonda e sincera, infatti, sono più vicini alla nostra quotidianità che all’epoca di Dostoevskij.

Un altro aspetto importante da sottolineare è quello dell’immaturità sentimentale che viene messo alla prova da quest’incontro e dalle conseguenze che ne deriveranno.

“E invano il sognatore affonda le sue mani, nei suoi sogni di un tempo come in un mucchio di cenere, cercando in quella cenere sia pure una sola scintilla per accedervi un nuovo fuoco e riscaldare il cuore già diventato freddo.”

Il sognatore si innamora e possiamo immaginare che qualsiasi sogno, qualsiasi altra trama immaginaria ed immaginata, pur cercandoli con tutte le sue forza, non riescono a raggiungere il sentimento reale.

“Come veloci volano gli anni! E ancora ti chiedi: che ne hai fatto di quei tuoi anni? Dove hai seppellito il tuo tempo migliore? Sei vissuto oppure no? Guarda, dici a te stesso, guarda come il mondo diventa freddo! Passeranno ancora degli anni e dopo di essi verrà la cupa solitudine, verrà, appoggiata alle stampelle, la tremante vecchiaia, e poi angoscia e desolazione… Impallidirà il tuo fantastico mondo, appassiranno e moriranno i sogni tuoi e cadranno come le foglie gialle dagli alberi… Oh, Nasten’ka! Sarà triste restar solo, completamente solo, e non avere neppur nulla da rimpiangere, nulla, proprio nulla… perché tutto quanto perderò, non è stato che nulla, uno stupido, tondo zero, nient’altro che sogno!”.

Quattro notti riescono a trasformare la vita del sognatore: dal sogno passa al rimpianto, al non aver vissuto a pieno, ad aver aspettato la vita così a lungo disegnandola perfettamente nella sua testa, ad aver fatto di un pensiero la sua casa ed il suo porto sicuro.

Questa è la particolarità di Le notti bianche: essere tremendamente attuale a sua insaputa.

Non a caso, i medesimi temi hanno interessato molti artisti dei nostri giorni, uno dei tanti è Brunori Sas che scrive una canzone dal titolo La vita pensata:

“La vita va vissuta
Senza trovarci un senso.
Me lo dicevi anche tu
La vita va vissuta
E invece io la penso”

Illustrazione di Vincenza Topo

Vedi anche: Ricordi: attenzione, maneggiare con cura

Catia Bufano

Laureata in Lettere Moderne, studia attualmente Filologia Moderna presso l’università di Napoli Federico II. Redattrice per La Testata e capo della sezione Fotografia. Ama scrivere, compratrice compulsiva di scarpe, non vive senza caffè. Il suo spirito guida è Carrie Bradshaw, ma forse si era già capito.

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