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Sì al riccio perché afro è bello!

Che bei capelli, ma sono tuoi?

Complimenti! Posso toccare?

Ma è una parrucca?

E quanto tempo ci metti per fare lo shampoo?

Non li stiri mai?

Secondo me dovresti tagliarli, sei troppo in disordine! Ma sono proprio di famiglia? Sembri una nera e comunque… stavi meglio prima!

Cerco di contare fino a 100, ma già ad 89 le mani mi sudano e il piede sinistro comincia a picchiettare sul pavimento che a momenti viene giù. Allora sorrido, cerco di mantenere la calma ed essere il più gentile possibile. Arrivo a 94 che ho già le mani del curiosone di turno che tirano, esplorano, palpano la mia chioma come se io non esistessi minimamente. Sono a 97 quando le domande sulla beauty routine dei miei capelli partono a raffica e io non so nemmeno che tipo di shampoo uso. “Prego signora, certo! Grazie, è molto gentile!” e mi ricordo che la calma è la virtù dei forti e il karma, quando vuole, sa mettersi d’impegno quindi meglio evitare.

Dovrei essere lusingata? Ringraziare, sorridere e salutare? Scusate, ma proprio non ci riesco. Dietro lo styling dei capelli afro c’è molto di più di una semplice acconciatura: l’identità.

Sono sempre di più le persone con la pelle scura a lasciare che i loro capelli dal naturale vengano “lobotomizzati” per seguire le mode occidentali ed ecco che treccine, stirature e parrucche sono usate per nascondere le proprie radici e sentirsi un po’ più inclusi in una società che ancora oggi non accetta chi non rientra in un preciso standard. Ma facciamo un passo indietro, dove tutto ha inizio…

Nel 1600 circa, la tratta degli schiavi ha dato il via alla disumanizzazione del popolo africano partendo proprio dalle loro capigliature. Durante i lunghi viaggi in nave i capelli degli schiavi diventavano molto crespi, motivo per cui gli schiavisti li rasavano sia agli uomini che alle donne. Quando cominciavano a crescere, gli schiavi, impossibilitati a curarli con i prodotti della loro terra d’origine, ricorrevano a rimedi alternativi quali le trecce pettinate con burro e grasso di pancetta.

Tutto ciò ha causato, con gli anni, non pochi traumi psicologici perché con la tratta degli schiavi si è cominciato a valutare il “grado di bianchezza” di un individuo.

Quindi capelli ricci e crespi, fianchi larghi e pelle scura erano considerati meno attraenti e quindi anche di basso mercato, invece capelli meno mossi e pelle più chiara erano sempre i preferiti dagli acquirenti. Tutto ciò ha cominciato a radicarsi lentamente ma in maniera violenta nella psiche delle persone portandole ad avere un cattivo rapporto col proprio corpo e la propria identità, compresi i capelli. Tanto che, nel 1786, venne addirittura approvata una legge che vietava alle donne africane di mostrare i capelli e le obbligava a raccoglierli in un grande copricapo, il Tignon, avvolto attorno alla testa in una sorta di turbante per evitare che potessero essere troppo attraenti e fare concorrenza alle donne bianche.

Nonostante l’abolizione della schiavitù nel 1865, ancora oggi si fa fatica a mettere in luce i propri punti forza.

Lo dimostra la poca premura da parte delle case cosmetiche nel creare prodotti adatti a quel tipo di capello, costringendo moltissime delle donne africane a lisciare e perfezionare la propria capigliatura per poter fare un certo tipo di lavoro, frequentare determinati posti e essere accettate da alcuni gruppi sociali. Secondo una ricerca approssimativa in Africa le donne spendono fino a 6 miliardi di dollari in parrucche e acconciature varie. Tuttora vediamo come in molti casi i capelli afro vengono disciplinati e la società continua a chiamarli gonfi, selvaggi e indomabili.

Come se noi fossimo bestie da addomesticare e con noi anche i nostri capelli.

Oggi i capelli afro hanno ancora una valenza politica. Infatti anche l’ex first lady Michelle Obama accetta di essere ritratta con i suoi ricci al naturale sulla copertina del magazine Essence, con la convinzione di non voler nascondere nulla di sé meno che mai le sue origini.

A loro modo anche star come Beyoncé, Alicia Keys, Solange Knowles e Rihanna hanno contribuito per una maggiore accettazione mostrandosi di volta in volta al naturale. O come il corto animato “Hair Love” realizzato tramite Kickstarter, diventato virale ormai da settimane, che racconta la storia di un papà afroamericano che per la prima volta approccia con i capelli ricci e ribelli della figlia Zuri.

Un colpo di scena finale fa capire quanto il valore di un essere umano non si identifica nel suo aspetto fisico, né tantomeno nei suoi capelli, anche se l’identità, è certo, passa anche da lì.

Sono quasi a 99 e ormai non ascolto più, le mani grondano e il pavimento è crollato. Mi chiedo chi sia stato a chiedere il parere della signora che mi è di fronte.

Mi chiamo Serena, ho 23 anni e non sono africana ma i miei capelli sì, e lotto ogni giorno dalla parte dei diversi.

  1. Signo’ io mi piaccio accussì perciò, statevi bene!

Serena Palmese

Illustrazione: Serena Palmese

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Serena Palmese

Mi piacciono le persone, ma proprio tutte. Anche quelle cattive, anche quelle che non condividono le patatine. Cammino, cammino tanto, e osservo, osservo molto di più. Il mio nome è Serena, ho 24 anni e ho studiato all’Accademia di belle Arti di Napoli. Beati voi che sapete sempre chi siete. Beati voi che sapete sempre chi siete.
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