Sociale

La negazione della cittadinanza

di Fabio Avitabile

Tutti vogliono sentirsi parte di qualcosa, favorendo la nascita ed espansione di formazioni sociali in cui accrescere la propria personalità. Tuttavia, non c’è nulla di più grande e appagante del vincolo di appartenenza allo Stato: la cittadinanza, che dalla notte dei tempi viene concessa con ponderatezza allo straniero.

Già nelle istituzioni di diritto romano era radicato lo ius sanguinis temperato, poiché il figlio legittimo seguiva la condizione del padre, mentre quello naturale ereditava la condizione materna.

Lo ius plenum era, originariamente, prerogativa dei soli abitanti dell’Urbe, poi estesa agli Italici a sud del Po all’indomani della Guerra Sociale (89 a.C.), e a tutti gli abitanti dell’Impero con l’editto di Caracalla (212 d.C.) per ragioni di ordine politico e fiscale.

Circa duemila anni dopo, lo Stato italiano attribuisce la cittadinanza sulla base dello ius sanguinis, se il nato è figlio di padre o madre cittadini. Invero, se il nato è figlio di ignoti o apolidi, acquisisce la cittadinanza tramite lo ius soli (diritto del suolo).

Diritto negato ai figli di stranieri, nati nel territorio italiano, a meno che – su loro domanda – non abbiano risieduto in Italia “legalmente e ininterrottamente” fino al compimento della maggiore età.

Pertanto, negli anni si è rivendicata un’espansione dei criteri per l’ottenimento della cittadinanza, fino alla c.d. riforma in cantiere dello Ius Soli, approvata dalla Camera nel 2015 e ancora arenata nella partita di flipper del bicameralismo perfetto, tra emendamenti e rinvii.

Allo stato, la riforma prevedrebbe il diritto del suolo “temperato”, in quanto un bambino nato in Italia acquisisce la cittadinanza al decorso di 5 anni di soggiorno da parte dei suoi genitori (se provenienti da Paesi UE).

Altrimenti, la conquista della civiltà sarebbe subordinata al possesso di ulteriori requisiti, quali la conoscenza della lingua italiana, l’idoneità dell’alloggio e un reddito non inferiore all’assegno sociale.

In aggiunta, la terza via di accesso alla cittadinanza sarebbe rappresentata dallo Ius Culturae, riservata ai minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie).

I ragazzi nati all’estero ma che arrivano in Italia fra i 12 e i 18 anni potranno ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico.

La Redazione

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