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Memorie di resistenza: mia nonna ricorda la liberazione

Ho sempre pensato che gli anziani siano una risorsa per noi giovani: è solo grazie a loro e ai loro memoriali che forse si può conoscere davvero la storia e da essa si può imparare.

Fin quando mia nonna era viva, anche quando negli ultimi periodi a causa della malattia che poi pian piano l’ha fatta spegnere, ho sempre ascoltato ciò che lei raccontava – vero, o addolcito che fosse.

Da lei ho imparato tanto e anche ora che non c’è più continuo a imparare. Mia nonna fin dalle infanzia ha sempre sofferto molto, ha vissuto la guerra, ha patito la fame, ha sopportato ingiustizie e tradimenti. Ma come poche persone al mondo non ha mai permesso che la sofferenza la plasmasse o la incattivisse, anzi tutt’altro: ha sempre perdonato a tutti tutto, e quando c’era da ringraziare lo ha fatto con tutta l’umiltà e con tutto l’amore di cui era capace. In questo 25 aprile – ben 79 anni da quel 1945 – mi piace ricordarla con voi, facendovi entrare un po’ nelle mie memorie e nei vissuti di una donna che la guerra l’ha conosciuta davvero.

“La guerra è uno di quei mali che non si augura a nessuno, come il tumore, nemmeno al peggior nemico. Si pesava anche l’acqua e la farina; io di politica non ne capivo molto, non perché non mi interessasse o non avessi una mia idea, ma perché noi donne non dovevamo impicciarci troppo degli “affari degli uomini”. Le uniche uscite che c’erano concesse erano quelle per andare a prendere il latte la mattina, per andare a pulire o a rammendare qualche calza e l’uscita della domenica, dove si andava a messa tutti insieme. Quella poca libertà che c’era concessa, ci è stata privata con la guerra: le condizioni precarie in cui viveva la mia famiglia divenirono ancora più gravi – i miei fratelli dovettero tutti arruolarsi, lasciando mio padre da solo a dover portare avanti una famiglia intera. Io e le mie sorelle aiutavamo i nostri genitori come ci era possibile, purtroppo sempre limitatamente in quanto donne.

Ricordo benissimo gli attacchi, le nostre continue fughe nei boschi, il nascondiglio per il pane in cantina, la furia dei fascisti e dei nazisti, l’aria di libertà che arrivò insieme agli americani.

Quando gli alleati arrivarono nascondemmo anche un giovane soldato tedesco: nonostante l’orgoglio ci dicesse di infliggere a lui ciò che in precedenza aveva permesso infliggessero agli italiani, la coscienza ebbe la meglio. Era a malapena un ragazzino, probabilmente lui esattamente come noi non aveva avuto scelta. Probabilmente lui esattamente come noi era solo una vittima; chissà se è riuscito a sopravvivere e se ha raggiunto di nuovo il suo paese e si è riconciliato con la sua famiglia, una madre e un padre che hanno pianto il suo arruolamento e che hanno pregato affinché ritornasse a casa vivo.

In quel periodo, evidente la precarietà umana, ogni giorno poteva essere l’ultimo e ogni giorno era buono per ringraziare Iddio per averci donato un altro giorno su questa terra martoriata. C’è stato un momento in cui le grida e le immagini erano così forti che ho desiderato di essere sorda e cieca; non sopportavo nemmeno il rumore del mio stesso respiro.

La guerra ci ha tolto tutto, anche quel poco che avevamo costruito e messo da parte negli anni con non pochi sacrifici; l’unica cosa che davvero non ci hanno tolto mai è la dignità. Tante giovani donne come me durante la guerra hanno perso tutto, genitori, fratelli, sorelle, zii, un tetto che le coprisse, il calore di una casa con 4 mura – molte di loro hanno cominciato a prostituirsi: il guadagno facile ha sempre allettato, ma quando è la fame a guidarti si cade spesso in errore. Avrebbero potuto fare qualsiasi altro mestiere, ma il guadagno facile ha avuto la meglio, tra loro c’erano anche mie compagne conosciute dalle suore. Non mi sento di giudicare né chi lo faceva per il gusto di farlo, né chi lo faceva per fame: piuttosto che una lira in più in tasca, ho sempre preferito una sola faccia da lavare, la coscienza-il rispetto per me e per la mia famiglia mi avrebbero divorato.

Si facevano tante cose ppe’ fame: si rubava, si ingannava, si vendeva, ci si vendeva.

Il 1945 lo ricordo bene, Napoli molto prima di Salerno è andata in subbuglio – un popolo da imitare. Lì ancora prima dell’arrivo degli alleati, il popolo ha mandato via i fascisti e i nazisti e si è liberato. Napoli, con i suoi vicoletti e i suoi bassi, aveva molti più uomini da nutrire e la carenza d’aria era molto più densa. Gli americani furono alleati, ma in guerra – si sa – l’occasione fa l’uomo ladro: furono proprio loro a continuare a mettere in ginocchio il paese. Per della farina o del cioccolato uomini e donne si sono spogliati della loro dignità. Anche in questo caso scelte discutibili, ma ognuno fa poi i conti con la propria coscienza.

Sembra così lontano dal 1945, ma non lo è. 1945 lo è ogni giorno in cui uno di noi si libera delle proprie frustrazioni, dalle proprie debolezze, dal proprio assalitore; ma la libertà richiede costanza e perseveranza, richiede coraggio e altruismo: non ci si libera solo per se stessi, ma anche per il prossimo. Le lotte, quelle vere, partono sempre da un singolo, dal suo bisogno di liberarsi. Non importa che sia nella vita quotidiana, durante una guerra, durante una lotta interiore – ciò che realmente conta è non arrendersi mai al nemico, sperare e credere che liberarai è possibile sempre.

Il 1945 lo ricordo come l’anno in cui l’umanità ha avuto la meglio sulla distruzione. Spero, con tutto il cuore, che mai al mondo si ripeta un conflitto del genere. La guerra è brutta sempre, ma quando ti toglie la dignità sei ormai schiavo. Quando la guerra ti costringe a lottare con un tuo simile, allora è arrivato il momento di dire basta e di resistere, anche con i denti se è necessario: la vita è un bene troppo prezioso per permettere a qualcun altro di decidere cosa farne della tua.

Tu, resisti sempre. Arriva sempre il giorno in cui lo schiavo diventa re.”

A mia nonna che è stata un esempio di resilienza, grazie.

Antonietta Della Femina

Antonietta Della Femina

Classe ’95; laureata in scienze giuridiche, è giornalista pubblicista. Ha imparato prima a leggere e scrivere e poi a parlare. Alcuni i riconoscimenti e le pubblicazioni, anche internazionali. Ripete a sé e al mondo: “meglio un uccello libero, che un re prigioniero”. L’arte è la sua fuga dal mondo.
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