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“Malbianco” di Mario Desiati: la guarigione nella memoria

Nel suo ultimo romanzo “Malbianco”, Mario desiati si interroga sulle conseguenze del passato sulla nostra vita, quello individuale e familiare ma anche il passato storico, quello che ha cucito la memoria collettiva degli italiani.

Che cosa ci devono fare gli uomini col passato?

Taciuto, ignorato, sepolto come il colore delle foglie sotto il malbianco che le avvelena, torna a farsi sentire e ci obbliga sempre ad ascoltare. E quando abbiamo tra le mani questo nuovo sapere, cosa dobbiamo farci, affinché il futuro prenda una piega diversa? Rinnovata o solo più serena.

Marco Petrovici ha quarant’anni e vive a Berlino, fin quando la schiena gli si riempie di sudore mentre aspetta l’autobus e sviene per la prima volta. Fin da bambino il suo corpo ha sempre cercato di dirgli qualcosa che non è mai riuscito a capire. Una piccola dispnea, una vertigine, l’appetito che scarseggia, e ora una lunga serie di svenimenti improvvisi. Per scoprire l’origine della sua ansia e per cercare un po’ di pace, Marco torna a vivere in Puglia, in un piccolo appartamento a pochi passi dalla casa dei suoi genitori anziani, immersi nel bosco della campagna di Taranto, un luogo descritto dall’autore come sospeso. 

Una piccola realtà familiare indipendente, lontana dalla città e dal siderurgico che inquina le acque e trasforma il colore del cielo in un violetto innaturale, alle volte bianco, altre bronzo. È il ricordo di Desiati alla sofferenza dei tarantini, costretti per anni a vivere fianco a fianco con un mostro di acciaio che li ha fatti ammalare e li ha privati del colore vero del cielo. Un eco che emerge dalle pagine in punta di piedi, sempre presente ma lontano, sempre alle spalle della sofferenza di Marco.

Un giorno il dottor Lipari gli dice che i sintomi e le inquietudini vanno curate ripercorrendo la storia della sua famiglia e i traumi dei suoi antenati. Per la prima volta Marco sente che può fare qualcosa di concreto per stare meglio. Ma Use e Tonia sono riluttanti nel rispondere a qualsiasi domanda che possa ridestare i fantasmi del passato. Hanno cresciuto Marco con amore, ma hanno da sempre una particolare sensibilità verso la vergogna e il disonore. Questo ha gettato nel silenzio la storia del nonno di Marco, Demetrio Petrovici, e di suo fratello, Vladimiro Petrovici: un professore e un musicista strappati da Taranto per arruolarsi nell’esercito italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. 

Troppe sono le cose che non tornano tra le poche che i suoi genitori gli hanno raccontato. I due fratelli furono mandati a combattere su due fronti diversi, come mai quindi sono tornati insieme dalla guerra, e per giunta ben due anni dopo la sua fine? Cosa è successo durante quei due anni? Perché Vladimiro torna a casa muto e perché Marco ricorda invece di averlo sentito cantare, in un giorno di neve, quand’era bambino? E soprattutto, perché i suoi genitori gli hanno sempre detto che quel ricordo altro non era che l’immaginazione di un bambino?

Marco lo sente, e soprattutto lo sente il suo corpo, che c’è qualcosa che deve scoprire. Il corpo gli parla di continuo: lo fa sudare quando si parla del cognome che non pare italiano, lo fa svenire quando il passato di altri uomini sembra risuonare dentro di lui. La terapia lo aiuta ad interpretare i segnali del corpo, ma anche quella diventa un segreto, un non detto che tutti sanno e che nessuno pronuncia. Use e Tonia in fondo sono consapevoli dei problemi psicologici di Marco, ma come può averne se loro non gli hanno mai fatto mancare nulla? Cosa dice questo del loro ruolo di madre e di padre? 

Così facendo, Mario Desiati traccia la sagoma di una grande realtà del nostro tempo. Una generazione che vuole guarire, fianco a fianco con un’altra che vede l’intimità come un segreto: un mistero che si svela solo quando ti toglie l’appetito. Ma lo fa senza giudizio, restituendo al lettore tutta la tenerezza delle figure di Use e di Tonia, colpevoli solo di essere figli (e vittime) del loro tempo.

Per rimuovere il malbianco – la patina di segreti dall’albero della sua famiglia – Marco va avanti a congetture che pian piano diventano archivi, documenti, viaggi nei luoghi in cui hanno camminato i suoi antenati e lui stesso, prima che tornasse in Puglia. Si era trovato lì per un lancio di dadi, uno strano scherzo del destino che forse voleva avvicinarlo alla verità prima che sapesse di doverla cercare. A guidarlo nell’intricato mistero familiare è il quaderno ritrovato di uno zio morto precocemente che condivideva il suo stesso nome. Un altro Marco Petrovici, che pare aver fatto le stesse ricerche prima di lui: il fratello di Use e il marito di zia Ada, la sua unica vera alleata. L’unica che sembra tenerci alla verità, che non aderisce a quell’assurdo sistema familiare e decennale di vergogna e silenzi. Oppure l’unica che ne è stata ferita quanto lui. 

L’autore spinge il lettore ad interrogarsi così sull’importanza dei nomi assegnati. Il protagonista del suo romanzo porta un nome rimasto vacante nella sua famiglia e assieme a quel nome porta con sé le aspettative di chi glielo ha dato e le frustrazioni di chi lo ha posseduto. Quanto incide quindi il nome che portiamo sulla nostra vita, sulle nostre paure più vivide, i nostri ricordi, i nostri conflitti, i nostri traumi? Quando il nome che portiamo è appartenuto a chi prima di noi ha avuto una storia, quanto di quella storia scorre in noi? Perché Marco si trova a continuare la vita di uno zio morto che non ha mai conosciuto?

“Malbianco” è un romanzo che va alla ricerca della verità, di quei traumi che abbiamo rimosso, così che nel ricordarli possiamo provare a salvarci, ad assolverci, a guarirci. 

“Mentre venivo rimbalzato da una parte all’altra della casa avverto un calore nel petto: qualche mese fa sarebbe stato l’avvio di una crisi di panico, oggi invece è l’adrenalina che mi serve per guardare le cose in modo diverso. La realtà attorno mi appare più chiara, più lucida, più sopportabile”.

Malbianco, Marco Desiati

Non solo i traumi personali. Desiati parla con coraggio anche del rimosso collettivo del nostro paese: la storia di Demetrio e Vladimiro si intreccia con quella di molti altri soldati dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, firmato dal maresciallo Badoglio per segnare la resa dell’Italia agli Alleati. La notizia colse di sorpresa l’esercito italiano al fronte. Confuso e disorientato, venne raggiunto dai nazisti e tutti i soldati furono obbligati a decidere se proseguire la guerra accanto a loro o rifiutare di aderire alla Repubblica di Salò, lo stato fantoccio fondato da Mussolini per continuare a collaborare con i tedeschi e combattere la resistenza partigiana. 

Cosa accadde a tutti gli italiani che rifiutarono? Vennero deportati nei campi di sfruttamento tedeschi, diversi dai campi di sterminio destinati agli ebrei. Qui gli italiani furono torturati, sfruttati come forza lavoro e affamati con zuppe di radici e bucce di patate. Vivevano accanto a inglesi e francesi ma ricevevano un trattamento peggiore: perché non erano solo nemici, erano traditori. Pian piano i compagni passavano dal lato dei tedeschi: l’uomo che il giorno prima ti dormiva accanto, nel gelo o nel calore soffocante, nelle notti pruriginose infestate dalle cimici, quello dopo ti ordinava di sgobbare più forte con la giacca dei nazisti sulle spalle. 

È una storia che abbiamo scelto di dimenticare collettivamente, ma la storia collettiva influenza sempre quella individuale, anche quando pare lontana, lascia gli strascichi nel contesto che ci circonda e ci plasma. Quanto è importante, quindi, conoscere il passato? E soprattutto, cosa dobbiamo farci con questo passato – il nostro e quello dei nostri antenati – per avere un futuro migliore?

“Per molti ebrei le tombe non si restaurano: più la tomba è rotta e abbandonata, più i tempi sono maturi perché il messia arrivi. Il passato va ricordato, non restaurato, altrimenti si impedisce il futuro”.

Malbianco, Mario Desiati

Profondo, storico, intrigante, commovente… tenero. È ciò che è stato “Malbianco” per me. Probabilmente, se dovessimo cercare una sola parola condivisa per racchiudere questo romanzo, sarebbe: verità. Ma per quanto sia assurdo pensare di “concentrare” Malbianco con una parola soltanto, la mia sarebbe: tenerezza

La tenerezza della natura umana, così imperfetta così complessa. La ricerca del sereno che ci accomuna tutti, la paura delle emozioni pesanti e della sofferenza che sembra così aliena alla vita umana tanto da rifuggirla in tutti i modi, e invece è così banale, ancestrale, naturale. A quanto è difficile e tenero perdonarci, al contempo.

La tenerezza di chi ogni giorno cerca di capirsi e di conoscersi, tra il terrore della scoperta e il dipanarsi timido di un sentire nuovo.

E alla fine, tra nonni soldati, antenati sconosciuti che ci scorrono dentro, relazioni attuali e conflitti nuovi… Quanto è difficile rispondere alla domanda: “chi sono io”? Il nostro sé si cementa sul passato e si rigenera continuamente. 

E quanto è semplice facilitarsi la risposta, dividerci tra buoni e cattivi, sensibili e spietati. Quando sotto la neve scorre un fiume di parole, che siamo in grado solo di pensare, e mai di afferrare. 

Simona Settembrini

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Simona Settembrini

Simona Settembrini, classe 2001, laureata in “Culture Digitali e della Comunicazione”. Per descrivermi al meglio, direi che l’amore, in qualunque sua forma, è sempre al primo posto nella mia vita. Scrivo perché mi aiuta a rendere il mondo meno confuso e per mettere nero su bianco le mie emozioni e quelle degli altri, perché in fondo sono tutte uguali.
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