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L’Attacco dei Giganti: Epopea del dolore umano

Nell’arte – come nella storia – l’orrore si annida spesso dove meno te lo aspetti: come tra le pagine di uno shonen manga.

Sin dal suo esordio nel lontano 2009, L’Attacco dei Giganti (Shingeki no Kyojin) di Hajime Isayama ha fatto parlare di se, stagliandosi quale monumento oscuro al dolore, in un mare di battle shonen.

“Quel giorno l’umanità ricordò il terrore di essere controllata da Loro: l’umiliazione di vivere come uccelli in gabbia.”

Mascherato da racconto fantasy che miscela realtà e distopia, l’opera si configura in realtà come una poderosa metafora del trauma, del potere che schiaccia il popolo, nonché dell’importanza della memoria.

Difatti, al di là del mero intrattenimento, improvvisamente il racconto di Isayama si deforma, muta, trasformandosi in un qualcosa di più: in uno strumento di esorcismo e denuncia, allegoria di una storia a noi – purtroppo – familiare. Solo che qui, al posto di soldati, sete di potere e bombe atomiche, agiscono giganti famelici, paura del diverso e città murate. Eppure, lo specchio che l’autore giapponese ci porge non riflette un mondo fantastico: riflette noi, la catarsi degli esseri umani. La nostra civiltà, le nostre guerre, le nostre ferite ancora aperte: il mostro, ne L’attacco dei giganti, indossa abiti civili.

Il male del mondo: eldiani ed ebrei, il peso della colpa

Come accennato, c’è qualcosa di tragicamente familiare nel modo in cui gli Eldiani vengono confinati, umiliati, marchiati all’interno dell’Impero di Marley. Come nella Germania hitleriana degli anni ’30, l’oppressione del diverso assume qui forme sistemiche e simboliche insieme: in primis con la ghettizzazione in zone isolate delle città, nonché l’addottrinamento sin da tenera età. Oltretutto, la fascia che gli Eldiani devono indossare – emblema visivo della loro “mostruosità” – è una citazione quasi letterale della stella di David imposta agli ebrei. Un atto di annientamento identitario che precede – e prepara – quello fisico.

L’Impero di Marley, tuttavia, non si limita a reprimere: sfrutta le abilità del popolo di Eldia, trasformando la loro biologia in colpa. Come per l’eugenetica e la teoria razziale nazista, l’“eredità e la storia” diventano una sentenza, condannando il singolo ad essere cancellato sotto il peso del sangue. La colpa degli antenati – veri o presunti – ricade sui discendenti, costringendoli a espiare in eterno.

Ma la crudeltà più sottile è forse quella psicologica. Come i personaggi di Shoah, anche il popolo di Eldia viene educata a disprezzarsi, a rinnegare la propria storia, a diventare “figli di Marley” attraverso il sacrificio. Nelle fila dell’esercito, ecco spuntare uno squadrone formato solo ed esclusivamente da eldiani, pronti a tramutarsi in Giganti e mangiare i loro simili, per ripulire il sangue.

Ma gli oppositori? Coloro che non vogliono servire l’Impero di Marley? Trasformati in mostri e gettati da una rupe, costretti ad adempire al loro scopo primario: distruggere il covo del male, Paradis.

L’annientamento, tuttavia, non passa solo per la morte, ma anche per l’oblio. Il passato viene riscritto, la verità soppressa sotto cumuli di propaganda: gli eldiani sono mostri, e voi dovete espiare le colpe dei vostri antenati. Sangue sporco da ripulire.

In questo, l’universo di Isayama tocca una delle corde più profonde della tragedia ebraica, ma non solo: la cancellazione culturale, sistematica, di un popolo.

Dov’è il nemico? La Palestina, il muro, l’assedio e l’eterna vendetta

Come accennato poc’anzi, l’opera non si limita a evocare il passato: inconsapevolmente, tende una mano anche verso il nostro tragico presente. Più controversa, ma ugualmente densa, è l’analogia con la questione palestinese. Sebbene non dichiarata, la corrispondenza simbolica è evidente: un popolo circondato da mura invalicabili, tagliato fuori dal mondo, trattato come minaccia esistenziale, un virus da debellare.

L’Isola di Paradis è cinta da enormi bastioni: soffoca il popolo e protegge gli altri – il fuori – dalla minaccia eldiana. Non è difficile intravedere in questa architettura del controllo il riflesso del muro che divide la Cisgiordania da Israele, con i suoi checkpoint, le sue torrette, la sua logica di segregazione. Come i palestinesi, anche gli abitanti di Paradis – quelli consapevoli della verità – vivono sotto l’incubo della militarizzazione e della delegittimazione della propria terra: sono “mostri”, “terroristi”, “minacce”, e vanno eliminati.

Isayama, inconsapevole studioso del conflitto arabo-israeliano armato di penna e inchiostro, ci mostra la degenerazione della lotta per la libertà. Eren, mosso inizialmente da un bisogno di emancipazione e protezione, si trasforma in carnefice, in un terrorista. Il trauma accumulato, la mancanza di dialogo, l’impossibilità di immaginare un futuro comune: tutti questi elementi alimentano una spirale di terrore in cui vittime e carnefici si scambiano continuamente di posto. Ed il nostro giovane protagonista, attraverso le sue idee radicali, diviene l’eroe degli jeageristi: fanatici pronti a dare la propria vita per la causa.

Come lui, tuttavia, anche i marleyani Rainer e Berthold – di sangue eldiano – sono stati punti dal morso del fanatismo. Similmente ad alcuni israeliani, anche l’Impero di Marley effettua un vero e proprio lavaggio del cervello, convincendo non solo i marleyani, ma soprattutto gli eldiani di essere “il male del mondo”. In quanto tale, il popolo di Eldia dev’essere sterminato, senza eccezione alcuna.

È il principio del “ritorno eterno” nietzschiano applicato alla geopolitica: nessuna tregua, solo cicli di vendetta, a dimostrazione che sia quasi impossibile ottenere una parvenza di Pace per gli esseri umani. Ci sarà sempre qualcun altro pronto a combattere, a dichiarare guerra al prossimo: per paura o per vendetta, per potere o per avidità.

Il fascino oscuro dell’orrore: estetica, ideologia e ambiguità

“Combatti! Per questa libertà sono pronto a sacrificare tutto. Non ha importanza quanto questo mondo possa sembrarti orribile, non ha importanza quanto questo mondo sia crudele.”

Ed eccoci al tasto dolente: l’ambiguità morale dell’opera, una caratteristica che ha suscitato non poche polemiche nel tempo. C’è chi ha visto ne “L’Attacco dei Giganti” una pericolosa estetizzazione della guerra, un’epica del sacrificio in cui i nemici sono veri e propri mostri e l’unica via è l’annientamento totale: un Genocidio. Le accuse ad Isayama di simpatizzare per il nazionalismo sono state alimentate da una certa retorica del martirio, dove il popolo “puro” – o eletto da Dio – si vede costretto a combattere per sopravvivere, anche a costo di distruggere tutto il resto.

Eppure, a una lettura più attenta, è proprio questa ambivalenza a rendere l’opera così potente. Il protagonista di Isayama non è un Hero di Horikoshi, né un villain di Urasawa: è umano, e tanto basta. Eren è il mostro da sconfiggere, l’antagonista finale, una bomba atomica che – esplodendo – condanna più del 70% dell’umanità. Tuttavia, è anche il bambino traumatizzato, l’amico protettivo, il giovane idealista che non ha trovato spazio nel mondo. La sua caduta nell’oscurità ci viene mostrata con dolore, inevitabile conseguenza dell’incapacità collettiva di ascoltare, accogliere, comprendere il disagio degli oppressi.

L’Attacco dei Giganti: l’eredità della violenza

Ne “L’Attacco dei Giganti” tutto ha un senso, un significante al di là del significato. Le possenti mura divengono metafora della prigione ideologica, svelando una duplice efficacia: proteggere Paradis dai giganti, ma anche il mondo intero dalla minaccia eldiana.

Il potere dei giganti, trasmissibile attraverso l’antropofagia, è un altro simbolo eloquente: la violenza è ereditaria, un peccato originale che nessuna redenzione può lavare via. E così, come in un quadro di Goya, la guerra diventa un banchetto cannibale in cui l’uomo divora sé stesso e i suoi simili.

Ma ad aver colpito maggiormente i lettori è stato di certo il finale. Un epilogo che non offre alcun conforto, nemmeno dinanzi al sacrificio ultimo di Eren. Anche dopo la morte del protagonista, la pace dura uno schiocco di dita, solo un’illusione che precede il prossimo conflitto e il mondo riprende a combattere. Le rovine diventano teatro di nuovi massacri, il Fondatore si rivela, il grande albero della vita risorge: la storia è ciclica, signori.

L’orrore siamo noi

Nel corso dell’opera, un pensiero si insinua come una lama sottile. Nasce un giorno, nel cuore della serie, tra un combattimento e l’altro. Al di là di stile e storia, l’abilità di Isayama è un’altra, più concreta, più significativa: inserire una serie di verità scomode, nascoste qua a là, tessendo una trama di incertezze e riflessioni.

Tant’è che, in seguito a un baciamano, si manifesta il vero, la realtà: non sono i giganti a essere mostri. Siamo noi, gli esseri umani, il nemico.

La crudeltà, l’odio, la paura sono proprie dell’umanità: non vengono da fuori, sono nati con noi. Ed è per questo che L’Attacco dei Giganti non è solo un manga, ma un promemoria scomodo, necessario, irrinunciabile. Un monito a non dimenticare per affrontare il futuro che verrà.

O il presente che stiamo vivendo.

Federica Polino

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Photocredits ©Crunchyroll

Federica Polino

Federica Polino, "per gli amici Polly", appassionata di anime e manga sin dal lontano 1992. Diplomata al liceo classico, dopo una breve tappa all'Accademia di Belle Arti sono tornata all'ovile, iscrivendomi a Lettere Moderne. Affamata di conoscenza, giustizia e divoratrice di libri, siano essi di storia, fantasy o classici, non fa differenza: sono da sempre i miei fedeli compagni d'avventure.
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