“From Hokusai to Manga”. Un viaggio nella cultura visiva giapponese

Dal monte Fuji ai manga, passando per uccelli, pesci e motivi floreali, esiste una linea sottile che unisce un’onda disegnata più di due secoli fa a un manga letto in cameretta o alla fermata dell’autobus. Questa linea è fatta di tratti neri, di movimento e immaginazione. La mostra From Hokusai to Manga, in questi giorni al Museo Civico Archeologico di Bologna, è un percorso che ha inizio con i pittori del periodo Edo (1603-1868) e arriva fino ai manga, invitando il visitatore a un viaggio fatto di calma, natura e contemplazione, ma anche di stupore e fantasia.

L’itinerario parte da Katsushika Hokusai (1760-1849), il maestro dell’ukiyo-e, l’artista che ha reso iconico il Monte Fuji e autore della celebre Grande onda. La mostra non è una semplice rassegna di grandi nomi dell’arte giapponese – o meglio, non è solo questo – ma si presenta piuttosto come un viaggio attraverso il modo in cui l’arte giapponese ha saputo reinventarsi continuamente, restando sempre fedele a sé stessa.
Il progetto curatoriale, firmato da Rossella Menegazzo ed Eleonora Lanza, nasce dal desiderio di comprendere le ragioni della straordinaria forza comunicativa della grafica giapponese e del suo successo globale. il disegno qui viene letto come un linguaggio capace di mettere in connessione arte, artigianato, design e comunicazione visiva. il percorso non segue soltanto una cronologia, ma si sviluppa come un mondo di forme, motivi e idee che tornano nel tempo, mutando ma rimanendo riconoscibili.
La prima sala è dedicata al Giappone del periodo Edo, un mondo popolato da attori di kabuki, cortigiane, paesaggi e scene di vita quotidiana. È anche il ritratto di una società urbana vivace, fatta anche di moda e intrattenimento. Qui emerge il legame col presente: quei volti intensi, le posture teatrali, le espressioni marcate, sono qualcosa di molto più vicino ai manga di quello che si crede. Il linguaggio visivo giapponese ha certamente assorbito influenze dalla cultura occidentale, ma sempre restituendole in forma trasformata. In tal senso, il manga non è un semplice fenomeno isolato o “pop”, ma è l’erede di una tradizione artistica molto solida.


Ma in Giappone il disegno invade anche la vita quotidiana, uscendo dai fogli per trasformarsi in motivo decorativo. Le immagini della prima sala, quelle del periodo Edo, non erano destinate solo a essere appese o collezionate: diventavano ornamento, venivano adattate ai tessuti e alle forme degli abiti tradizionali, correvano lungo le superfici dei kimono, si aprivano e si chiudevano sui ventagli e su altri oggetti di uso comune. Nella seconda sala sono esposti dei veri e propri manuali di disegno, repertori visivi realizzati da grandi artisti che crearono un alfabeto di immagini pronte all’uso, adattate ai vari tessuti e modelli. In Giappone non esiste dunque una linea di separazione netta tra pittura, artigianato e design, il disegno passa dalla carta alla seta, dal libro all’oggetto, dall’artista all’artigiano. Il dialogo tra arte e arti applicate è uno degli aspetti più intelligenti della mostra.

Prima della teca finale che chiude la mostra, in cui sono raccolti numeri storici di alcuni manga iconici, come Captain Harlock o Mazinga, il visitatore attraversa un’ultima sala, uno spazio di transizione che è forse uno dei più stimolanti dell’intera mostra. Qui si entra nella sezione dedicata alle opere contemporanee, che non hanno mai abbandonato la tradizione. Le immagini diventano più essenziali o audaci, dialogano con la grafica e il design, ma alcuni tratti del passato sono sempre presenti: il segno deciso, l’attenzione al movimento, la capacità di raccontare molto con pochi elementi, talvolta rappresentando un solo pesce o un solo volatile. Qui vi è una sorta di senso di pausa, non c’è nostalgia del passato ma neanche una brusca rottura, anzi alcune opere sembrano tenere insieme la stampa ukiyo-e e la tavola manga.
Alla fine del percorso si capisce come il manga non nasca dal nulla: è il risultato di secoli di sperimentazioni e trasformazioni, ma anche di adattamento e confronto: con l’Occidente, con la pubblicità, con il graphic design.


La chiusura della mostra, con la teca contenente i vari manga, non mette un punto fermo, ma apre una porta. Personalmente, sono uscito con la sensazione di aver attraversato un modo di pensare l’immagine: un linguaggio che dal tratto del periodo Edo alla vignetta di un manga odierno, continua a evolversi e a parlare al presente.
Roberto Spanò
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