Davvero il ministro Giorgetti potrebbe dimettersi?

Negli ultimi mesi, diverse dichiarazioni del Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti hanno acceso un dibattito interno alla coalizione di governo. Da un lato, il ministro ha ribadito la necessità di una politica di bilancio rigorosa e credibile; dall’altro, emergono malumori negli altri partiti di maggioranza, che sembrano chiedere una linea più espansiva su alcuni fronti.
Uno degli elementi che alimenta l’ipotesi di uno scontro è la manovra di bilancio: Giorgetti ha illustrato la cornice della legge di bilancio e ha avviato consultazioni nella maggioranza, ammettendo che «nuove regole rendono complicato» fare il bilancio.
Secondo alcuni osservatori, il ministro sta caricandosi il peso principale della responsabilità per le scelte difficili, come la stretta sui conti o la difficoltà nel reperire risorse per le promesse politiche: su di lui ricadrebbe gran parte del fardello mediatico e politico. In più, non mancano critiche concrete: alcuni lo accusano di aver sovrastimato le capacità di spesa, o di aver promesso troppo poco su temi sociali, scaricando poi la colpa su vincoli tecnici o regole di bilancio. Alla vigilia della discussione parlamentare, Giorgetti ha anche ammesso di fronte ai mercati che la spesa per la difesa rappresenta un’incognita. Questo porta a un’altra tensione: da un lato l’escalation delle esigenze strategiche, dall’altro la necessità di evitare una manovra correttiva, perché questo governo non vuole apparire debole ma stabile. Per alcuni detrattori, Giorgetti è diventato il capro espiatorio della manovra.
È lui che guida il Ministero dell’Economia, e quindi è più facile (per gli avversari interni) incolparlo quando i conti non tornano o quando le risorse sono limitate. In particolare, la linea della «stretta sui conti» potrebbe essere usata come alibi politico: se le spese non possono essere aumentate, è colpa della rigidità del ministero di Giorgetti. Ma questa accusa non è priva di fondamento: il Documento Programmatico di Bilancio (DPB) per il 2025 è stato presentato proprio da lui. Nei piani del ministero, il debito dovrebbe iniziare a calare solo in modo sensibile a partire dal 2027, anche se il deficit è previsto scendere sotto il 3% già negli anni a venire. La tensione si acuisce ulteriormente quando si considera che, nonostante il rigore, il governo vuole sottolineare la propria credibilità sui mercati e davanti all’Europa: il plenipotenziario del Tesoro appare come garante di una politica economica «seria e responsabile», ma questo ruolo comporta inevitabilmente dei costi politici. In più, i rapporti con la maggioranza non sono sempre semplici. Le regole sull’iter della manovra sono cambiate: secondo alcune fonti, la nuova governance richiede una risoluzione parlamentare che definisca già alcuni capisaldi della legge di bilancio.
Questo rende più difficile per il ministro gestire tutto in solitudine: serve un compromesso con i partiti, che però potrebbe irritare chi vorrebbe più margine di spesa. L’ipotesi di dimissioni è stata evocata da più parti. In passato, Giorgetti ha dato segnali forti: in altra circostanza, aveva affermato che se fosse stato «sconfessato» su decisioni strategiche importanti (come nel caso della golden power su Unicredit e BPM), non avrebbe esitato a lasciare il governo. Tuttavia, ci sono diversi motivi concreti per pensare che alla fine non darà questo passo: Giorgetti ha costruito il suo mandato attorno al progetto di riduzione del deficit e di ricostruzione della fiducia sui mercati. Dimettersi significherebbe mettere in forse quella narrativa, rischiando di apparire come un ministro sconfitto piuttosto che un guardiano dei conti. Nel governo attuale, non è affatto scontato che ci sia un successore con la stessa autorevolezza su finanza pubblica e credibilità di fronte a Bruxelles e ai mercati. Se dovesse uscire, la sostituzione potrebbe scontentare assetti delicati della maggioranza. Le minacce di dimissioni possono essere politicamente utili: se usate come leva negoziale, servono a spingere gli altri partiti a fare concessioni, a ricompattare la maggioranza attorno a un compromesso. In molti casi, l’annuncio della possibilità di lasciare serve più a consolidare la posizione di chi lo fa che a preparare un’uscita definitiva.
Ci sono anche segnali positivi per Giorgetti: ad esempio, la prospettiva concreta di uscire della procedura per eccessivo deficit europeo, che lui stesso ha indicato come obiettivo. Se riuscisse a centrare questo traguardo, la sua posizione sarebbe rafforzata notevolmente. Se davvero le voci di dimissioni dovessero concretizzarsi, le conseguenze politiche sarebbero importanti: un’uscita di Giorgetti potrebbe scatenare una vera crisi tra i partiti della coalizione. Alcuni potrebbero rivendicare un maggior ruolo nelle decisioni economiche, altri potrebbero temere che il successore abbandoni la linea di rigore. L’economia italiana non vive in isolamento: qualsiasi scossa in un ministero chiave come il Tesoro può essere interpretata come un segnale di instabilità dagli investitori. Una dimissione potrebbe complicare il percorso di riduzione del deficit e il progetto di uscita dalla procedura europea. Con una manovra di bilancio ambiziosa e complessa, cambiare il capo del Mef durante l’anno potrebbe rendere più difficile il dialogo parlamentare e l’approvazione di misure delicate.
Alla luce di quanto detto, l’ipotesi più plausibile sembra essere che Giorgetti stia effettivamente usando la minaccia di dimissioni come strumento negoziale, non come preludio a un’uscita reale. È un comportamento tipico nella dialettica politica: mostrarsi pronto a lasciare significa rafforzare la propria leva contro chi, all’interno della maggioranza, vorrebbe spingere per misure più espansive o per una diversa distribuzione delle responsabilità. In questo senso, il ministro dell’Economia gioca su due tavoli: da una parte comunica fermezza ai mercati e all’Europa — non è disposto a fare passi falsi che minaccino la stabilità finanziaria; dall’altra manda segnali ai colleghi di governo, dicendo implicitamente che non tollererà di essere isolato o usato come capro espiatorio.
È un equilibrio delicato, ma non necessariamente destinato a rompersi. In definitiva, la morale più realistica è che Giorgetti non lascerà il posto, almeno non ora. Le sue minacce servono più a mettere pressione che a preparare una resa.
E quel che appare agli osservatori come una spaccatura nella maggioranza potrebbe rivelarsi, alla prova dei fatti, una mossa tattica ben calibrata.
Tommaso Alessandro De Filippo
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