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Parole tra follia e genio: la storia di James Murray e William Chester Minor

Londra, fine Ottocento. Nelle biblioteche illuminate da una luce fioca, tra scaffali carichi di volumi e il profumo dell’inchiostro fresco, un gruppo di studiosi sogna di racchiudere l’intera lingua inglese in un’unica grande opera. È un’impresa titanica, destinata a durare decenni e a coinvolgere migliaia di mani, di menti, di vite.
Tra tutte, due si stagliano sopra le altre: quelle di James Murray e William Chester Minor, uomini diversissimi, uniti da un legame inatteso e profondo, destinato a dare vita all’Oxford English Dictionary — il più grande monumento mai eretto alla lingua.

James Augustus Henry Murray nacque nel 1837 in un piccolo villaggio della Scozia. Figlio di un sarto, conobbe presto la fatica e il valore dello studio come via di riscatto. Non ebbe un’istruzione universitaria: fu la curiosità a fargli da maestra. Da ragazzo, studiava latino, greco, francese e tedesco durante le lunghe notti d’inverno, con il lume di una candela e i libri presi in prestito da amici più fortunati.
La sua mente era un archivio ordinato, un cantiere in continua costruzione. E quando, da adulto, ricevette l’incarico di dirigere la redazione dell’Oxford English Dictionary, comprese di avere davanti a sé non un semplice lavoro, ma la missione di una vita: dare una forma alla memoria della lingua inglese, raccogliere ogni parola e restituirle la sua storia.

A migliaia di chilometri di distanza, un altro destino si stava compiendo. William Chester Minor, nato nel 1834 a Ceylon da una famiglia di missionari americani, era un uomo colto e raffinato. Divenne chirurgo dell’esercito unionista durante la Guerra di Secessione americana, ma la guerra lo segnò per sempre. I ricordi di violenza e di sangue si trasformarono in visioni, incubi, sospetti.
Trasferitosi a Londra dopo il conflitto, la sua mente non trovò pace: una notte, spinto dal delirio, uccise un uomo innocente. Giudicato infermo di mente, fu rinchiuso nel manicomio criminale di Broadmoor, dove trascorse gran parte della vita. Ma dentro quelle mura, invece della follia definitiva, Minor trovò un inatteso rifugio: i libri.

Nel silenzio della sua cella, costruì una biblioteca personale di migliaia di volumi. Li leggeva, li studiava, li ordinava con una disciplina ferrea. Tra le pagine dei testi antichi trovava non solo la compagnia, ma anche la possibilità di espiazione. E quando, nel 1879, lesse l’annuncio di Murray su un giornale londinese — un appello ai lettori perché aiutassero a raccogliere esempi e citazioni per il nuovo dizionario — comprese che poteva finalmente offrire qualcosa di sé al mondo.

Da Broadmoor iniziarono ad arrivare pacchi di schede, ciascuna con annotazioni precise e citazioni ricercate. Il nome in calce era “Dr. W. C. Minor”.
Murray rimase colpito dall’esattezza del suo contributo: il misterioso collaboratore sembrava possedere una memoria inesauribile e una dedizione fuori dal comune. Gli scrisse più volte per ringraziarlo, ignaro di chi fosse davvero quell’uomo che tanto stava contribuendo alla sua impresa.
Per anni si scambiarono lettere, unite da una stima reciproca crescente. Solo più tardi, Murray venne a sapere che il suo prezioso aiutante non viveva in una casa di campagna o in un’accademia, ma in una cella d’ospedale psichiatrico.

Quando finalmente decise di incontrarlo, si recò a Broadmoor in una mattina autunnale. Al suo arrivo, il direttore del manicomio lo accompagnò in una stanza semplice e ordinata, dove Minor lo attendeva con compostezza e un’eleganza impeccabile. I due uomini si strinsero la mano e, per la prima volta, il filologo e il recluso si parlarono non attraverso la distanza della carta, ma nella concretezza dell’incontro.
Da allora, Murray visitò più volte il manicomio. Portava con sé schede da rivedere, parole da discutere, elenchi di termini in cerca di conferme. Minor collaborava con rigore, come se ogni voce corretta, ogni citazione individuata, potesse riscattare una parte della sua anima tormentata.

Il contributo del dottor Minor fu immenso: più di diecimila schede furono compilate da lui. Alcune delle voci più complesse e antiche del dizionario – parole dimenticate o usi poetici ormai perduti – recano la sua impronta invisibile.
Murray, da parte sua, non nascose mai la gratitudine e l’ammirazione che nutriva per quell’uomo che, pur rinchiuso tra le mura di un manicomio, era riuscito a illuminare le pagine dell’opera più ambiziosa della lingua inglese.

La redazione dell’Oxford English Dictionary si rivelò un lavoro immenso, quasi inumano. Ci vollero oltre settant’anni per completarlo. Il primo volume, dedicato alla lettera “A”, vide la luce nel 1884. Quando Murray morì, nel 1915, l’opera non era ancora terminata: sarebbe stata completata nel 1928, tredici anni dopo la sua scomparsa.
Minor, invece, continuò a vivere a Broadmoor, sempre più fragile e tormentato. Nel 1902, in un eccesso di disperazione, si autoinflisse una ferita terribile, e da quel momento la sua salute peggiorò irrimediabilmente. Dopo trent’anni di internamento, fu rimpatriato negli Stati Uniti, dove morì nel 1920, in una clinica del Connecticut.

Due esistenze agli antipodi: una vissuta nel rigore del lavoro e della conoscenza, l’altra consumata dal rimorso e dalla malattia. Eppure, senza l’una, l’altra non avrebbe potuto compiersi.
Murray, il costruttore del dizionario, trovò in Minor la prova più concreta che il sapere può nascere anche dal margine della follia; Minor, il recluso, trovò in Murray la dignità del perdono. Entrambi, in modi diversi, contribuirono a costruire un’opera che non fu solo un trionfo linguistico, ma un atto di fede nella mente umana.

Oggi, chi sfoglia le pagine dell’Oxford English Dictionary raramente conosce i nomi di chi le ha scritte. Eppure, dietro ogni definizione, c’è una traccia di quelle due vite intrecciate. Il loro incontro ci insegna che la conoscenza non è privilegio dei sani o dei dotti, ma può fiorire ovunque ci sia dedizione, anche nel silenzio di una cella o nel disordine di una mente ferita.
Le parole, come gli uomini, hanno percorsi imprevedibili: nascono, cambiano, sopravvivono al tempo. E nel loro lungo viaggio trovano, a volte, chi le sa ascoltare.

Forse, se oggi si sfiora il silenzio della Bodleian Library di Oxford e si sfogliano le prime pagine del grande dizionario, si può quasi percepire il respiro di un’epoca: Murray, chino sul suo scrittoio, immerso tra carte e definizioni; Minor, rinchiuso nell’inquieta quiete della sua stanza a Broadmoor, che sceglie con precisione un frammento di frase, un esempio, un segno.
Due uomini lontani, uniti da un compito comune: dare voce al linguaggio e, attraverso di esso, donare un senso al mondo.

Antonio Palumbo

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Antonio Palumbo

Antonio Palumbo, classe 1999, è dottore in Lettere Moderne e attualmente completa la propria formazione con una magistrale in Filologia Moderna presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II". Insegna Lingua e Letteratura Italiana in un istituto scolastico privato e, appassionato di lettura e di scrittura, dedica il suo tempo libero anche alla fotografia naturalistica e al collezionismo di libri e di monete antiche. Insegue il sogno di visitare il mondo e di scoprire tutto il fascino e la complessità delle diverse culture umane.
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