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Intersezionalità: ancora sconosciuta

L’intersezionalità nasce in tribunale, non nelle università. Prima che diventasse parola da t-shirt femminista, fu Kimberlé Crenshaw, donna nera americana, classe ’59, a introdurla.

Giurista, docente e attivista, una di quelle che non si è mai limitata alla teoria ma che è stata tra le voci di #SayHerName, contro la violenza della polizia sulle donne nere. Oggi è considerata una delle pensatrici più influenti nei diritti civili e nella teoria sociale.

Un tuffo nel fiume sporco della storia

Il Paese a stelle e scrisce in quegli anni bruciava di tensioni razziali, la Reagan-era aveva lasciato cicatrici profonde. Tagli al welfare, militarizzazione dei quartieri neri, retorica del “family values” che significava in realtà ordine e controllo. Il femminismo mainstream era dominato da donne bianche della classe media, con pochissimo spazio per chi non rientrava in quel canone.

Nel 1989 alla Casa Bianca si insedia George H. W. Bush. Non un volto nuovo, ma un ex direttore della CIA travestito da presidente, un uomo che aveva fatto carriera nei corridoi del potere e dei servizi segreti, portando con sé più logiche di intelligence che di democrazia. La sua bussola era la geopolitica, non i diritti civili. La sua presidenza segna l’intensificazione della “War on Drugs”, che nella pratica significava incarcerazioni di massa sproporzionate: afroamericani e latini riempivano le prigioni, mentre la retorica della sicurezza faceva felici e contenti i bianchi suburbani. Allo stesso tempo avvia la Guerra del Golfo, che mette al sicuro il petrolio del Kuwait bombardando civili iracheni, l’ennesima guerra “per la pace”, che di pacifico aveva solo i contratti delle compagnie energetiche.

Si presentava come un politico di compromesso, il “moderato fatto bene” dopo gli anni ruggenti di Reagan, ma la sua eredità fu un sistema ancora più diseguale e repressivo. Un terreno fertile che i presidenti successivi – compreso il biondone col cappellino rosso, simpaticissimoh – hanno potuto affrontare pattinando comodi.

1989, la svolta.

In questo scenario Crenshaw pubblica sulla University of Chicago Legal Forum un saggio destinato a cambiare tutto: “Demarginalizing the Intersection of Race and Sex”.

Tema centrale? Le donne nere erano invisibili alla legge. 

I tribunali pretendevano prove di discriminazione “o come donne” o “come nere”. Entrambe? Non previsto dal codice.

Il caso emblematico fu DeGraffenreid v. General Motors. Cinque donne nere denunciarono l’azienda perché prima del ’64 non assumeva donne nere e poi, durante la crisi, le licenziò tutte. Risultato? Ricorso respinto. “Le donne bianche non sono discriminate. Gli uomini neri nemmeno. Quindi voi non esistete.” Un vuoto giuridico enorme.

Crenshaw ha l’intuizione e conia una parola nuova: intersectionality. La immagina come un incrocio, dove le discriminazioni arrivano da più direzioni e travolgono chi sta al centro. Non si sommano, si intrecciano. Da quel giorno il diritto, poi la sociologia e la politica, hanno finalmente una lente nuova per vedere ciò che prima era invisibile.

Ola, coriandoli e gelati

Un giorno storico, certo. Ma evitiamo la versione da sogno americano, con unicorni, coriandoli e pure il carretto dei gelati. Non è che da lì in poi si sia illuminato tutto. L’intersezionalità è diventata parola d’oro: basta pronunciarla e partono le ola accademiche, gli sguardi compiaciuti.

Ma che è successo? Perchè l’abbiamo svuotata?

Nel 2025 “intersezionalità” è ormai parola d’ordine, un’etichetta che fa scena, ma il suo significato originario si è perso. Doveva servire a dare voce a chi era invisibile e invece oggi troppe categorie continuano a sparire. È il contrario del termine stesso.

Donne migranti che fanno le badanti in nero? Invisibili. Non fanno trending topic. Fa più scena parlare di donne manager, perché è più instagrammabile e patinato.
Donne nere con disabilità? Mai nominate. Le lotte femministe si fermano al genere, le battaglie antirazziste si fermano al colore della pelle. E loro restano sospese in un limbo che nessuno vede.
Ragazze trans povere? Citabili solo se entrano in un talk show patinato, se diventano icone pop. Se invece vivono ai margini, senza lavoro e senza casa, spariscono.
E le donne rom? Se ne parla solo come problema di sicurezza, mai come cittadine con diritti.

E potremmo continuare: donne in menopausa precoce, madri sole, lavoratrici precarie. Tutte categorie “inutili”, che non portano like né copertine. Troppo scomode per essere raccontate, troppo reali per entrare nell’estetica patinata dell’inclusione.

E intanto l’operaio di “La classe operaia va in paradiso” non sogna più di abbattere il padrone: vota Lega, difende Bezos, sogna Musk. Una centrifuga sociale e politica che ha ribaltato ogni asse: il subalterno che si stringe al miliardario, l’escluso che difende il sistema che lo schiaccia.

Questa è la vera ironia amara. Abbiamo svuotato un concetto nato per smascherare le sovrapposizioni di potere e lo abbiamo trasformato in parola da seminario, da collettivo, da hashtag. Mentre la vita reale continua a produrre invisibilità, esclusioni e ribaltamenti assurdi. L’intersezionalità non doveva essere un’etichetta, ma una lente.

Inclusione a porte chiuse

Anche negli spazi che proclamano inclusività, l’esclusione resta pratica quotidiana. Donne che brandiscono l’inclusività come bandiera finiscono per erigere muri invisibili. Se non entri nel modello previsto, resti fuori.

Secondo le teorie sull’intersezionalità – come quelle che si approfondiscono in ambito teorico e divulgativo – l’obiettivo è leggere le molteplici forme di oppressione che si intrecciano, non trattarle come compartimenti stagni. Quando invece l’intersezionalità viene ridotta a parola d’ordine, diventa un filtro: serve a includere chi già “funziona” nel discorso dominante, mentre le “inconvenienti” restano fuori.

Non stupisce che una come Giorgia Meloni lisci il pelo all’uomo cis e lì trovi spazio. È la stessa che dichiara: “Mi trovo meglio con gli uomini che con le donne”. Non è emancipazione: è complicità ingabbiata. Ti adatti all’unico contesto che ti riconosce, anche se patriarcale, e ti fai accogliere come eccezione utile.

Ed è qui il cortocircuito dell’“intersezionalità ancora sconosciuta”: mentre alcune donne vengono celebrate – quelle spendibili, funzionali – altre spariscono. Madri single ignorate dal welfare, donne in menopausa cancellate, precarie mai nominate. È la stessa logica che Crenshaw smascherava: sei visibile solo se appartieni a una categoria che il sistema può digerire.

E non è un discorso che riguarda solo le donne. Il campo si estende ovunque tra politica, cultura, istituzioni.

Non parlo di Meloni come “donna giusta”: nel suo ultimo siparietto è l’esempio plastico di velina da Ruota della Fortuna, messa in vetrina, accontentata delle briciole e convinta siano un trono. Ma come lei, tante altre si piegano a regole tossiche pur di conquistare un briciolo di riconoscimento.

E così, mentre nei panel si citano donne nere come simbolo, le donne nere vere — quelle che a 50 anni lavorano in cucina per 2 euro l’ora, senza contratto — restano invisibili. Perse non solo nel vuoto giuridico che Crenshaw denunciava, ma anche nel vuoto inclusivo, culturale e accademico che oggi ci raccontiamo come progresso.

La domanda vera

Allora, chiediamoci: intersezionale di cosa esattamente? L’America anni ’80 non è l’Italia di oggi. Qui i nodi sono altri, e sono incandescenti. Un intero paese ridotto a parco giochi per ricchi stranieri e speculatori, tra Airbnb selvaggi e speculazioni edilizie che divorano quartieri interi. Un Nord che si racconta produttivo ma in realtà precarizza, delocalizza e sputa fuori intere generazioni. Giovani che scappano, scuole e università senza fondi, una sanità pubblica allo stremo. Un classismo che lo respiri persino in farmacia, tra chi può permettersi il farmaco di marca e chi aspetta mesi per una visita. E poi un caos sul genere e sulla sessualità che neanche Freud basterebbe a decifrare, tra femminicidi che crescono, dibattiti tossici e diritti sempre messi in discussione.

E allora, prima di accarezzare il termine “intersezionalità” come fosse un trofeo accademico, col cappellino da laurea da lanciare alla folla, …guardiamo ai nostri asili nido che cadono a pezzi. Perché prima di arrivare in aula magna si passa da lì. E magari, chissà, qualche giacimento di intersezionalità lo ritroviamo proprio negli asili, tra muri scrostati e disegnini di Dio patria e famiglia fatti con i pastelli a cera.

Il rischio di questo ennesimo svuotamento linguistico? Restare nella solita bolla: intellettuali da salotto che rullano Pueblo con kefiah di Amazon, bacchettano chi sbadiglia e si raccontano quanto sono bravi. Perché sull’intersezionalità sanno vita, morte e miracoli. Ma della vita vera, fuori dall’aula e dai convegni, non vedono niente.

Una bolla grigia, opaca. Sempre più noiosa. Altro che intersezionale, autoreferenziale semmai. E come tutte le bolle, destinata a scoppiare.

Serena Parascandolo 

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Serena Parascandolo

Serena Parascandolo, classe ’89, napulegna cresciuta tra vicoli, sottoculture di locali underground e sogni infranti. Scrivo di moda, politica e sottoculture con una penna affilata e un cuore malinconico e sorridente, come un ossimoro. Femminista, queer, terrona, mamma. Studio e imparo ancora, perché la strada è lunga e il mondo troppo complicato per accontentarsi. La mia scrittura prova a essere un atto d’amore e una piccola rivolta.
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