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Come il linguaggio plasma la realtà: gender bias nel linguaggio

Perché si può dire la Presidente o non la Presidentessa? Che differenza c’è tra un uomo di strada ed una donna di strada? Sono davvero solo parole oppure nascondono interpretazioni della realtà? 

Il linguaggio plasma davvero la percezione delle cose che ci circondano? È un quesito che molti linguisti si pongono da anni e che sembra aver trovato riscontro positivo. 

Non troppi anni fa in un celebre TEDTalk  Lera Boroditsky, professoressa in scienze cognitive e personalità molto in vista nel campo della relatività linguistica, aveva offerto numerosi ed interessanti esempi di come lingua e cultura siano estremamente collegati. I Kuuk Thaayorre, che vivono a Pormpuraaw all’estremità occidentale di Capo York, non usano parole come “sinistra” e “destra” ma tutto è in direzioni cardinali: nord, sud, est e ovest. In questa popolazione essere ben consapevoli di dove si è orientati nello spazio è essenziale, cosa che invece nella maggior parte delle società occidentali non è così centrale: per spiegare il concetto la studiosa chiede ai presenti all’incontro di indicare il sud-est ottenendo scarsi risultati, questo perché non è un loro quotidiano riferimento di linguaggio e dunque di interpretazione del mondo.

Altre lingue non presentano il concetto di numero, il che rende complessa un’azione per noi semplice come indicare una quantità in modo preciso. Alla domanda “Quanti pinguini vedi in questa immagine?” si potrebbe rispondere “Un gruppo” e non “Otto” per esempio.

Molte lingue hanno un genere grammaticale, quindi ad ogni sostantivo viene assegnato un genere, spesso maschile o femminile. Questi generi differiscono tra le lingue. Quindi, ad esempio, il sole è femminile in tedesco ma maschile in spagnolo, e la luna, il contrario. Potrebbe davvero avere qualche conseguenza su come pensano le persone? I tedeschi pensano che il sole sia qualcosa di più femminile, e la luna in qualche modo più maschile? In realtà, si scopre essere così. Se si chiedesse a persone che parlano tedesco e spagnolo, ad esempio, di descrivere un ponte (“ponte” è grammaticalmente femminile in tedesco, grammaticalmente maschile in spagnolo) i tedeschi sono più propensi a dire che i ponti sono “belli”, “eleganti” e parole stereotipicamente femminili. Mentre gli spagnoli saranno più propensi a dire “forte” o “lungo”, quindi parole maschili.

A questo punto ci sarebbe da chiedersi, il linguaggio avrà effetti anche sulla percezione e sulla rappresentazione degli individui e del loro genere nel mondo? Se fa riferimento alla nascita di molte lingue europee come l’italiano o il francese, il processo di creazione è avvenuto arbitrariamente, attraverso meccanismi di standardizzazione (quindi di decisioni prese a tavolino) sulla base del momento storico e della cultura di riferimento. Entrambe le lingue, malgrado il canone imposto all’origine, si sono poi ristandardizzate, ossia modificate in modo naturale sulla base dell’uso: in italiano essi, esso oppure egli, ella sono stati sostituiti da lui, lei, loro; allo stesso modo in francese vi sono  moltissime parole dell’uso quotidiano (non necessariamente gergale) provenienti dalla lingua araba (a causa della massiccia immigrazione dalle ex colonie francesi nel nord Africa), fenomeno che l’Accademia della lingua francese sicuramente non aveva previsto.

Le lingue quindi non solo vengono create per stare in una certa cultura ma non sono un prodotto fisso: seguono la direzione della società e la rappresentano. Dalla struttura che le lingue hanno oggi quindi possiamo capire tanto della cultura d’origine e del ruolo che le persone hanno all’interno della stessa in relazione  al loro genere, al loro status e soprattutto alla loro visibilità.

Si possono distinguere tre tipi di lingue: lingue di genere grammaticali, lingue di genere naturali e lingue senza genere. Il tedesco, il francese e il ceco, ad esempio, sono lingue di genere grammaticali. In queste lingue ogni sostantivo ha un genere grammaticale e il genere dei nomi personali tende ad esprimere il genere del referente. Nelle lingue di genere naturali (inglese o svedese) i nomi personali tendono ad essere neutri rispetto al genere (ad esempio, neighbor) e il genere referenziale è espresso in modo pronominale (ad esempio, he/she). Nelle lingue senza genere come il finlandese o il turco né i nomi personali né i pronomi segnalano il genere. Qui, il genere è espresso solo attraverso attributi come “maschio/femmina [insegnante]” o in parole di genere lessicali come “donna” o “padre”. Di conseguenza, le asimmetrie di genere e linguistiche sono molto più visibili nelle lingue di genere grammaticali che nelle lingue di genere naturali o lingue senza genere.

Quindi il modo in cui il genere è codificato in una lingua può essere associato all’uguaglianza di genere nella società? Questa ipotesi è stata testata empiricamente per 111 paesi con sistemi linguistici diversi, controllando le differenze geografiche, religiose, politiche e di sviluppo (Prewitt-Freilino et al., 2012). In questa ricerca, per determinare l’uguaglianza di genere è stato utilizzato il Global Gender Gap Index del World Economic Forum. È stato riscontrato che i paesi con lingue di genere grammaticali raggiungono livelli inferiori di uguaglianza sociale di genere rispetto ai paesi con lingue di genere naturali o lingue senza genere. Ciò suggerisce che una maggiore visibilità delle asimmetrie di genere è accompagnata da disuguaglianze di genere nella società. Un’indagine sugli atteggiamenti sessisti ha fornito ulteriori prove di questa relazione: gli intervistati (madrelingua inglese e bilingui) hanno mostrato atteggiamenti più sessisti quando l’indagine è stata condotta in una lingua grammaticale di genere (spagnolo o francese) rispetto a in una lingua di genere naturale (inglese). Questi risultati documentano che, dal punto di vista dell’equità di genere o dell’uguaglianza di genere, i linguaggi grammaticali di genere presentano un caso particolarmente complesso e difficile.

La ricerca ha inoltre rivelato che l’utilizzo del maschile generalizzato porti a pensare maggiormente a esempi maschili rispetto a quelli femminili per le categorie di persona. Gli effetti delle forme linguistiche sulle rappresentazioni mentali sono stati misurati con l’aiuto di varie metodologie sperimentali, ad esempio, (1) completando frasi con pronomi e sostantivi diversi (ad esempio, lui, lei, lui/lei, l’avvocato, il cliente), (2) scrivere storie su persone fittizie seguendo una frase introduttiva al maschile o con una formulazione corretta per il genere, (3) nominare rappresentanti femminili o maschili (ad esempio, il musicista preferito) in risposta a entrambi i termini maschili nomi o combinazioni di forme femminili e maschili, (4) stima della proporzione di donne e uomini in determinati ruoli ecc…

Esistono allora delle strategie per poter garantire una rappresentazione equa nel linguaggio e conseguentemente nella mente? Si, sto parlando di neutralizzazione, femminilizzazione e una combinazione delle due. La strategia più appropriata dipende dal tipo di lingua in questione.

Nel quadro della neutralizzazione i termini contrassegnati dal genere vengono sostituiti da sostantivi con genere indefinito (poliziotto inglese da ufficiale di polizia). Nelle lingue di genere grammaticali, le forme differenziate per genere sono sostituite, ad esempio, da epicenei (cioè forme con genere grammaticale invariante che si riferiscono a persone sia femminili che maschili, come docente o badante).

La neutralizzazione è utilizzata soprattutto nelle lingue di genere naturali (ad esempio  per inglese,  norvegese e danese) e per le lingue senza genere (ad esempio per il finlandese), poiché è abbastanza facile evitare marcature di genere in queste lingue. Al posto di he/she è dunque stato impiegato il they, tuttavia l’utilizzo del suddetto pronome è fortemente contrastato dalle istituzioni della lingua inglese. 

Recentemente in svedese è stato inventato un pronome di terza persona neutro rispetto al genere: hen. Questo neologismo è apparso per la prima volta nel 2012 in un libro per bambini dove fungeva da alternativa ai pronomi contrassegnati dal genere “lei” (hon) e “lui” (han).

In lingue come l’italiano e il tedesco si tenta invece di aggiungere il femminile al maschile generalizzato (es. donna e uomo elettricista), oppure attraverso l’utilizzo dei suffissi come -essa. Tuttavia l’utilizzo di questi termini in certe occasioni può risultare problematico per lo spettro semantico di significati che includono. Per certi termini il femminile denota tradizionalmente una posizione subordinata come in ostetrica – ostetrico.

Nel primo caso si tratta di una infermiera specializzata nel secondo di un medico ginecologo. In altri casi può far riferimento alla coniuge, come ambasciatrice – ambasciatore. Anche la connotazione di alcuni termini declinati al femminile dunque è problematica nella nostra lingua, come ben ci aveva ricordato Paola Cortellesi durante il David di Donatello 2018: «nella nostra lingua alcuni termini che al maschile hanno loro legittimo significato, se declinati al femminile […] diventano un luogo comune […] un leggero ammiccamento alla prostituzione. » E così per esempio è raro dire “ti faccio una squillo” invece di “uno squillo” e molte rapper italiane, a differenza di molti uomini, avrebbero difficoltà a definirsi delle “donne di strada”

Un altro sistema molto discusso che sicuramente vi sarà venuto in mente è quello della schwa utilizzato in Italia ma che trova sue corrispondenze anche in altri paesi come la Francia (dove si utilizza il pronome inclusivo iel oppure desinenze neutre in -x e -z, come assistant (m. s.), assistante (f. s), assistantx (neutro s.).). Questo tipo di alternative vengono invece criticate poiché definite poco comprensibili e difficilmente replicabili nel parlato. Ciò non ha però impedito il loro utilizzo e la loro diffusione in vari ambienti a livello soprattutto digitale, rendendo quello che prima sembrava “un obbrobrio della lingua italiana” un po’ meno alieno.

In merito alle tecniche utilizzabili per ovviare al maschile generalizzato e decostituire i bias di genere linguistici ci sono quindi varie opinioni: ogni tecnica ha i suoi vantaggi ma anche le sue criticità. 

Personalmente, a fronte dei cambiamenti che già sono avvenuti in passato nella nostra lingua, reputo inutile trincerarsi dietro all’idea di parola che “suona male”  (ad esempio “avvocata”) oppure dietro allo stigma che un termine porta con sé (inteso come lo storico dei significati ad esso connessi). 

Le lingue evolvono in relazione a quale direzione facciamo loro prendere: nessun significato è per sempre. È dunque nostra responsabilità “rivendicare” le parole e ri-standardizzarle in relazione al nuovo valore che vogliamo che prendano. 

Lera Boroditsky  ci pone tre interrogativi durante l’intervento a TED: “Why do I think the way that I do?” “How could I think differently?” E anche, “What thoughts do I wish to create?”. Forse questa è l’ottica con cui dovremmo imparare a guardare la lingua, importante e bellissima come rappresentazione delle persone che la abitano e che l’hanno abitata. 

Sofia Seghesio

Leggi anche: Linguaggio e privilegio, cosa diciamo davvero quando parliamo?

Sofia Seghesio

Classe 2001. Non sono assolutamente in grado di definirmi. Pessima partenza per un* scritt*, lo so. So di me che sono curiosa ma a volte superficiale ed è proprio scrivere che mi aiuta ad andare in fondo alle questioni per capirle veramente. Nutro un interesse magnetico verso le persone: per quello che fanno e pensano. Per questo non posso fare a meno di interagirci, che sia attraverso un libro, un film, una chiacchierata. Spero dunque di potervi portare con me all’interno di qualche fantastica storia o che possa avere l’onore di raccontare la tua.
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