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Non chiamatelo omicidio

Quando si parla di interruzione volontaria di gravidanza, la parola “omicidio” continua insensibilmente a comparire sulla bocca di molti nonostante la comunità scientifica abbia ribadito più volte che non è affatto così.

Ci sono due modi in cui questo argomento può essere affrontato: di testa e di petto. Partiamo dalla testa.

La definizione giuridica di omicidio è, secondo il dizionario Treccani, «soppressione di una vita umana da parte di un altro essere umano», ma quand’è che un essere umano comincia ad essere tale?

Dal punto di vista medico, un embrione è considerato vita umana dal momento in cui sviluppa un sistema nervoso che gli permette di provare, tra le tante cose, il dolore. Ciò non avviene prima dei tre mesi dal concepimento, dunque non si può tecnicamente parlare di essere umano prima delle dodici settimane.

Nonostante la propaganda effettuata dagli antiabortisti, un feto di poche settimane non ha già le sembianze né la capacità di provare sensazioni e sentimenti come farebbe un neonato formato. Se non ci credete, date un’occhiata all’immagine di un embrione alla nona settimana di gravidanza fornita da MYA Network, una rete di cliniche, attivisti e pazienti che si adopera per garantire l’aborto e le relative cure. Vi sembra che quello in foto sia un essere umano vivente?

L’interruzione volontaria di gravidanza è possibile in molti Paesi entro i primi novanta giorni, esattamente dodici settimane di gestazione. Ciò non significa, comunque, che nelle settimane a seguire l’aborto sia da considerare un assassinio visto che il bambino non è ancora completamente formato né tantomeno nato. Soprattutto, quello che i pro-vita non tengono mai in considerazione è che talvolta l’interruzione di gravidanza è necessaria anche più in là, in caso di pericolo per la salute fisica o psichica della madre. 

Se per esempio un feto presenta gravi malformazioni che gli impedirebbero di sopravvivere più avanti o che metterebbero a rischio la vita della madre, non è forse più caritatevole nei confronti della gestante e del feto evitare questa sofferenza futura? 

E pensiamo alle donne rimaste incinte con uno stupro. Costringerle a portare avanti il prodotto di una violenza non è essa stessa una violenza? I pro-vita difendono i diritti di chi non è ancora nato e mai di chi invece già vive.

Una gravidanza può essere anche scoperta tardi, magari da una persona senza i mezzi per riconoscerla o troppo giovane per avere accesso alle cure in tempi brevi. E queste persone hanno tutto il diritto di gestire il loro corpo come vogliono e di vivere un’interruzione di gravidanza senza il peso dello stigma sociale.

Come ci si sente a fare un passo del genere? Non c’è una risposta univoca, per ognuna è diverso, e sicuramente solo chi ci passa può capirlo. Ci si può sentire in colpa e addolorate, ma ci si può anche sentire incredibilmente sollevate perché non per tutte una gravidanza è una benedizione o un sogno che si avvera. Non tutte vogliono essere madri o sono pronte in quel momento specifico a diventarlo.

Accusare di omicidio chi decide di abortire è prova di una grandissima mancanza di empatia – oltre che di buonsenso – così come la volontà di abolirne la pratica legale una terribile violazione del diritto all’autodeterminazione degli individui. Ricordiamo che la libertà di uno finisce dove comincia la libertà di un altro, e non c’è religione o ideologia che tenga.

Claudia Moschetti

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Claudia Moschetti

Claudia Moschetti (Napoli, 1991) è laureata in Filologia Moderna. Ha insegnato italiano a ragazzi stranieri e scritto per un sito universitario. È attualmente recensora presso il blog letterario Il Lettore Medio e redattrice per il magazine La Testata. Dal 2015 al 2021 ha collaborato alla fiera del libro gratuita Ricomincio dai libri, di cui è stata anche organizzatrice.
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