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L’unica volta che ho avuto paura ed abbassato la guardia

Spinta a largo, ho temuto i crampi, ho temuto di restare ancorata al presente e ho temuto per la mia intrepida fantasia. 

Una parte importante della nostra storia è avvenuta a distanza. Io l’ho immaginata e inventata con una certa insistenza e con un’intensità che ha volte ha sfiorato la soddisfazione di averla accanto e di stringerla a me. 

Poi, attimi di sgomento. Ho temuto che non esistesse, che fosse una chimera, privo di concretezza e di qualsiasi possibilità di realizzazione, e persino certi ricordi, ho bisogno di puntellarli. Dettagli certi ma insignificanti. 

Le navi non affondano a causa dell’acqua attorno. Le navi affondano a causa dell’acqua che entra al loro interno. Vale anche per me, per la mia pelle. La mia condanna. Condanna amata.

Sulla mia pelle ho sentito il tuo dolore bruciante come fosse anche il mio. Ho accolto e accettato questo dolore. Poi la vita muta e i volti scompaiono. Ora ci sono zone di me che non sentono più niente.   

E insieme ai volti, il vestito. Eclissato. Lo cerco. Non lo trovo. Le acque dentro di me torneranno al loro corso. Avrò il tempo? Forse il mio tempo sta per scadere. Sopporto. Faccio mio il tuo dolore per aiutarti a sopportarlo. 

Erano le undici del mattino. Stavo per andare via e lei faceva i capricci. «Dai, ancora cinque minuti» mi ha detto. «Stai qui.» Il momento in cui ci separiamo è sempre il più difficile.

Io che mi vesto, infilo i miei jeans scuri e lei ancora a letto. Nuda senza il mio odore. Si è aggrappata alle mie spalle, impedendomi di alzarmi, tenendomi dalla schiena. L’ho sollevata con una facilità disarmate.

Come pensava di fermarmi? Sono andato in bagno e sono ritornato dieci minuti dopo. Quando la tempesta passa io mi vergogno. – Ma ero io. A vergognarmi e a ripulire le mie cose. – Era lei. 

I lividi non si ripuliscono. Dopo no, dopo non ti piace più il mondo, non ti piace più far ridere, dopo vuoi solo essere invisibile. Dopo, abbiamo parlato ancora per cinque minuti.

Quando ti arrendi provi una strana sensazione, senti di staccarti dal tuo corpo, come se, fossi totalmente isolata. Non senti più niente, non provi più niente.

Prima di uscire di casa mi hai dato un bacio sulle labbra. Un bacio che diceva «Ci vediamo presto» e poi mi hai sorriso.

Erano le undici e poco più del mattino e la stanza profumava di te. Quel profumo che ho imparato a conoscere tra milioni. Me lo ricordo bene.

Quel bacio, l’ultimo. Come se ce ne dovessero essere ancora altri. Come se dovessi sperare di toccare ancora le tue labbra morbide.

Come se quella fosse una separazione come le altre. E invece è stata l’ultima. E io lo sapevo.

È necessario perdersi, ferirsi anche un po’, tanto poi cicatrizzi e la memoria registra. 

L’unica volta che ho avuto paura ed abbassato la guardia. L’ultima.

È come quando stai guardando un film in famiglia, coi genitori, fratelli, e senti che, sta per arrivare quella scena un po’ spinta. 

E allora guardi altrove, fai domande, ti alzi e prendi un bicchiere d’acqua, ti viene voglia di cantare. 

Ho sciolto i capelli e fatto quel movimento col collo per spostarli indietro. Pensavo di sistemarli e invece, sono più incasinati di prima. 

Poi ho ritrovato il vestito. Quello. L’unica arma che mi è rimasta. Tutto torna. Io non sono più tornata. 

È diventato un vestito di fuoco. È diventata poesia. È bello accettare il male e conoscere quello che non voglio più. 

Francesca Scotto di Carlo 

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Francesca Scotto di Carlo

Ventinove anni, napoletana. Di sé dice di essere un «cumulonembi», testarda, indistruttibile, assertiva. Scrittrice, umanista, attivista, è una di quelle persone con la voglia di cambiare il mondo, un passo alla volta.
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