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“Fame d’aria” è l’urlo sfrontato di chi vive l’affanno della disabilità

Pietro soffre per l’autismo del figlio e da molti anni non conosce altro che la rabbia. Un guasto all’auto sembra un’altra disgrazia, ma si rivela (almeno in parte) un’occasione per rinascere.

A Sant’Anna del Sannio, un piccolo e bellissimo paese di pietra bianca, con pochissimi e variegati abitanti, il tempo sembra essersi fermato e si può dire che l’umanità non è morta. Anzi, sembra proprio che Fame d’aria di Daniele Mencarelli sia, in fondo, un’indagine sull’umanità stessa, sulla difficoltà della sua sopravvivenza, sulla difficoltà di praticarla, su quanto sia facile, e spesso ordinario, perderla del tutto.

Pietro è in viaggio per Marina di Ginosa, sta per raggiungere la moglie con l’intento di festeggiare il loro anniversario di matrimonio e staccare per qualche giorno dalle responsabilità dello Scrondo. È così che chiama suo figlio Jacopo, lo paragona a quel personaggio televisivo degli anni ottanta, rockettaro di borgata con le sembianze di un goblin, un mostriciattolo verde, basso, con la coda, le orecchie a punta e i capelli biondi, per meglio dire il marcio della televisione italiana.

Jacopo è il marcio della vita di Pietro. Jacopo, che è un angelo caduto in volo, ha diciott’anni ed è bellissimo, di una bellezza che può ingannare per qualche istante, come Bianca, la madre. Gli stessi lineamenti e la stessa delicatezza della carnagione color latte. Ma lui è vuoto, incavo all’interno, come privato di vita propria, il suo è solo un corpo dondolante.


Tutto ciò che esce dalla sua bocca è un suono: mmmm. Il corpo non riesce a sostenere il suo stesso peso e cerca sempre aiuto in Pietro. Se viene lasciato solo, anche per pochi minuti, ha impulsi violenti.
Per Jacopo è normale, per la madre è una sentenza accettata con fatica e rassegnazione, per Pietro è un’assoluzione di morte.

Bloccato in quel paesino del beneventano a causa di un’avaria alla frizione della sua Golf, per di più col figlio autistico a bassissimo funzionamento, Pietro è costretto a fare i conti con una realtà nuova, che sembra quasi essere all’oscuro delle malformazioni e anomalie del mondo. Non ha nessuna voglia di spiegare il come, il perché e il cosa, ma si limita a dire di Jacopo che non parla, non sa fare nulla, si piscia e di caca addosso.


E così, non vengono più domande.

Il soggiorno di Pietro nella vecchia e polverosa locanda “Da Arturo”, ormai gestita dalla moglie Agata, gli permette di osservare e studiare i pochi abitanti del paese riuniti in una sala comune nella quale si concentra una atmosfera stanca e scontrosa, arrivista e ipocrita, in perfetta armonia con la presenza di Pietro.


Inizia così la strada tortuosa e stretta verso l’interiorità di un uomo rimasto senza nulla, se non la moglie. Il denaro speso per le cure di Jacopo non ha portato nessun miglioramento e lui ha perso la fiducia negli altri e la capacità di pensare in modo positivo. Anche l’amore per il figlio è ormai svanito e ha lasciato il posto alla collera e al veleno, che sembrano ribollire al minimo richiamo esterno.

Pietro non sopporta più la realtà, è esausto, impaziente e lontano anni luce dalla figura di padre. I genitori dei figli sani non sanno niente, si ripete ogni volta che è costretto, con un gesto secco, a sfilare i pantaloni a Jacopo per pulirlo e cambiargli il pannolone. Pietro ha desiderato un figlio normale come un miracolo, ma non è mai arrivato. Come unica risposta è spuntato l’odio, che ha ricoperto tutto, i sani e i malati, ingrigito il cielo come cenere dai camini. Poi anche l’odio è tramontato, ed è sbucata la rabbia, una voragine da cui Pietro si lascia invadere e trascinare giù.

«La rabbia, sentimento disprezzato, non certo da Pietro nei momenti in cui ne produce a barilate, porta con sé inconveniente spiacevoli.
Effetti collaterali, per così dire.


Nei momenti in cui circola furiosa nelle arterie annulla la soglia del dolore. Le ossa arrivano a spezzarsi, quante falangi, metatarsi frantumati su porte o armadi. Quando scende, come ogni sostanza stupefacente che si rispetti, si torna tra gli umani, e un osso rotto fa male. Pietro lo sa bene.
Ma il vero guaio è un altro. La regina rabbia quando esplode, azzera qualunque principio di valore»

Ma in paese, da Oliviero, il meccanico in pensione che sta impegnandosi a riparare la macchina, ad Agata, anziana signora che mette a disposizione la vecchia locanda del tempo che fu, a Gaia cameriera e psicoterapeuta in pausa per cui Pietro sembra prendere una cotta adolescenziale, tutti trattano gli ospiti con disponibilità e attenzione.

È proprio Gaia che riesce a penetrare come un raggio di luce in una crepa nel mondo oscuro di Pietro, solo lei riesce ad irrompere in quella corazza per dar vita a un flusso di pensieri a cui quel padre, ormai disilluso, non aveva mai dato nome. Gaia è accogliente, strategica, ma buona. Ed è quel buono che manca alla vita di Pietro, quell’idea di un’esistenza normale e leggera, dove finalmente sono abbandonati pannoloni e terapie, sguardi assenti e movimenti involontari senza senso. Pietro lo sa che non è facile, ma l’ha accettato da un pezzo e dopo l’accettazione ci si rassegna aspettando solo che, d’un tratto, tutto finisca nel modo più silenzioso e ignoto possibile.

Con uno stile tagliente, asciutto e diretto Mencarelli presenta un padre molto reale e non romanzato e riesce a delinearlo in pochissimi giorni ed è proprio in cima a una montagna di problemi insormontabile, pensieri che spezzano logicità e turbamenti che tolgono aria, che Pietro, come ognuno di noi, si chiede «Chi c’è lassù?».

Come negli altri romanzi autobiografici di Mencarelli, i protagonisti, con la loro rabbia e il loro forte disagio verso il mondo, riescono a salvarsi attraverso l’incontro con gli altri. Negli ospedali psichiatrici – Tutto chiede salvezza – e nei piccoli paesi, perché le relazioni, anche se Pietro fa finta di non saperlo, sono ancora guidate dai sentimenti e dalle emozioni.

È un libro, Fame d’aria, capace di disturbare, spiazzare e forse scandalizzare tutti, sia le persone sane e “normodotate” che non conoscono l’universo difficile della disabilità, sia le persone che invece la vivono, con la sua narrazione bruciante, accesa, disillusa, dura, c’è anche una sorta di eleganza precisa, senza macchia, senza retorica e senza ombre.

Così, tutti vengono coinvolti e si chiedono «Perché? Ho fatto tutto quello che potevo, e allora perché?».

Accade così che i genitori dei sani non lo sanno come si vive una vita con disabilità. La disperazione, la rabbia, la difficoltà di fornire sostegno senza tregua o pausa, la realtà di tanta miseria, persino gli amici scappano.
Si rimane soli, ci si rimboccano disperatamente le maniche per superare la giornata, in ansia per il domani, chiedendosi cosa succederà a questo sfortunato esserino quando i suoi genitori non ci saranno più.

E così ci si arrabbia, e si diventa cattivi, i peggiori della specie.

«Ma la cosa brutta è un’altra. La povertà ti rimane attaccata addosso. Ti perseguita. Anche quando potresti stare tranquillo ti buca il cervello. Vivi per lei. Io so a memoria il prezzo di tutto. A quale discount comprare lo scatolame, dove la pasta, i giorni in cui i supermercati fanno gli sconti per chi ha familiari con invalidità. I frigo dove vendono i prodotti in scadenza. Da oltre dieci anni so alla perfezione quanto ho in tasca, in questo momento ho venticinque euro, un foglio da venti e uno da cinque, ed è tutto quello che ho. So quanto sto sotto in banca, le scadenze di tutte le rate. Da dieci anni è come se vivessi con un coltello alla gola. E allora rateizzo, rateizzo tutto. Tra un po’ anche l’aria che respiro la prenderò a rate».

Pietro è un esperto di sopravvivenza. È un uomo povero, consapevole di non poter dare al figlio le cure migliori e la certezza di un futuro. Un uomo inaridito da una vita senza bellezza, un uomo che ha svuotato tutto, anche l’amore, in un cuore logoro che non prova più nulla se non una rabbia cinica verso il mondo e verso Dio. È un ragazzo precocemente invecchiato, malato di disperazione sul crinale della tragedia che fugge da una rappresentazione identica a se stessa una sera dopo l’altra, attorno a una vita che non cessa mai di essere uguale al giorno precedente.

E come se la vita gli si stringesse addosso, ha fame d’aria.

Le parole di Daniele Mencarelli hanno un’essenza potente. Sa scrivere della vita senza generalizzare, senza semplificare. E sa parlare del dolore, qui ed ora, di chi va giù e di chi nonostante tutto, dimenticato e lasciato al caso, ha ancora la forza di tendere la mano per offrire una rinascita.

Ma la Fame d’aria deve essere saziata con costanza e a volte non bastano piccoli respiri a carburare la vita, sono quelle cose piccole e che accadono per un motivo più grande a provocare la scossa.

Un motivo che a noi non è dato capire.

Serena Palmese

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Serena Palmese

Mi piacciono le persone, ma proprio tutte. Anche quelle cattive, anche quelle che non condividono le patatine. Cammino, cammino tanto, e osservo, osservo molto di più. Il mio nome è Serena, ho 24 anni e ho studiato all’Accademia di belle Arti di Napoli. Beati voi che sapete sempre chi siete. Beati voi che sapete sempre chi siete.
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