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Suggrundaria – la sepoltura infantile nelle anfore

Totò ne ‘A livella ci racconta che il “nobile marchese Signore di Rovigo e di Belluno” voleva che la salma del suo vicino “Don Gennaro, ‘o scupatore, venisse inumata e seppellita nella spazzatura”. A noi questo scambio di vedute legate alla classe sociale fa sorridere e riflettere, eppure c’era un tempo in cui anche la morte era trattata e vissuta in base al ceto. 

Tendenzialmente, in ogni caso, la morte non era quasi mai un evento nefasto, anzi tutt’altro: per lo stoicismo essa altro non è che una fase della vita. 

Particolare attenzione era riservata soprattutto alle tombe: monumentali, erte per celebrare il defunto (vedi piramidi), e sempre uniche. 

Ma non tutti meritavano di avere in morte ciò che avevano avuto in vita; singolare sono le modalità di sepoltura di chi di vita ne aveva avuta poca: i bambini

Gli infanti morti venivano solitamente seppelliti dapprima al di fuori della casa natale e poi al di fuori dell’area urbana, lontani dalle tombe degli adulti. 

Vi erano delle suggrundae, letteralmente “sotto la grondaia” ed era proprio – riprendendo tale significato – quello il luogo in cui venivano posti i bambini morti entro i 40 giorni; Plinio il Vecchio ci dà maggiori informazioni affermando che “non si usa cremare un uomo a cui non siano ancora spuntati i denti” (Plinio, nat. VII, 16,72: «Hominem priusquam genito dente cremari mos gentium non est…»); lo stesso Giovenale converge verso tale affermazione (Giovenale, sat. XV, 139/140: «…vel terra clauditur infans et minor rogi…»).

Il termine di coniazione romana non deve trarci in inganno. Il fenomeno vede le sue prime attestazioni già nel secondo millennio a.C., nell’Anatolia pre-ittita in aria Egea e in Grecia: le sepolture di infanti avvenivano in pithoi (giare) o vasi di grandi dimensioni; in Italia, in Trentino, sono state rinvenute sepolture in vasi nella Necropoli di Romagnano-Loc III e nel sito di Mezzocorona Borgonuovo, entrambi risalenti all’ Antica età del bronzo.

Tali attestazioni altro non fanno che dar conferma alla teoria secondo la quale la religione sia sempre stata forza motrice, anche delle popolazioni più antiche. I bambini non ricevevano sepoltura non perché non ci fossero aree adibite o spazi disponibili per farlo, ma perché si riteneva che coloro i quali non avessero ricevuto una presentazione “ufficiale” agli dei o al Gesù cristiano non meritassero una degna sepoltura, in quanto condannati al limbo. 

Per ovviare a tale gesto in tempi più recenti (in età medievale) fu creato un escamotage che prevedeva, prima della chiusura del corpo in un contenitore, la presentazione presso un santuario con la speranza che al defunto potesse essere donato un ultimo respiro per poter essere “battezzato” (di grande rilevanza è l’esempio offertoci dal Santuario della Madonna delle Grondici a Panicale (PG) passato alla storia come il santuario à répit, cioè del respiro). 

L’opera di Luigi Manciocco: Suggrundaria

L’installazione Suggrundaria evoca le sepolture infantili realizzate nella Roma antica, quando si disponevano i piccoli corpi dentro le grondaie annesse alle abitazioni. Un culto arcaico che oggi rivela abitudini pagane e mitologie sociali, a conferma di quanta complessità ruoti da sempre attorno all’elaborazione del lutto.

Manciocco, qui e nelle altre opere, plasma un denso immaginario antropologico, agendo come un archeologo che intuisce archetipi visivi dentro culture popolari. Un tema scottante, l’infanzia, si declina così in maniera drammaturgica e universale, riunendo passato e presente nella coscienza del simbolo, ultimo avamposto per riflettere sulla vita con prosa solenne e immagini persistenti.

I materiali appaiono freddi e metallici: grondaia e bambolotti si amalgamano nella tensione industriale di acciaio e alluminio; il monocromo delle leghe dialoga con le luci del museo; lo stesso bianco del muro partecipa al contenuto emotivo dell’opera, lasciandosi fendere da una saetta narrativa che “taglia” l’intonaco. Il risultato esalta la sacralità liturgica del materiale – il più vicino al minimalismo storico -, quel freddo metallo che qui si presenta in veste espressiva, al punto da plasmarsi con abiti simbolici che fanno vibrare il suo spirito nascosto.

Metallo e geometria sembrano attratti dal magnetismo dei sensi, trovano un’empatia che smuove il vincolo minimalista verso una visione plurale e allegorica. Vince la sinuosità delle forme quotidiane, riconoscibili e attraenti. Una rinata coscienza metallica che assorbe le luci circostanti e la natura epidermica del presente, aggiungendo processi narrativi che animano la biologia progettuale.

Antonietta Della Femina

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Antonietta Della Femina

Classe ’95; laureata in scienze giuridiche, è giornalista pubblicista. Ha imparato prima a leggere e scrivere e poi a parlare. Alcuni i riconoscimenti e le pubblicazioni, anche internazionali. Ripete a sé e al mondo: “meglio un uccello libero, che un re prigioniero”. L’arte è la sua fuga dal mondo.
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