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Effetto Lucifero: chi è il vero responsabile del male?

La tematica della responsabilità del male è stata approfondita da innumerevoli studi all’indomani del processo di Norimberga.

Difficilmente l’opinione pubblica riusciva a conciliare l’idea che dietro i nazisti più spietati si celassero semplici padri di famiglia, burocrati e a volte perfino uomini dalla raffinata cultura.

Poteva coesistere nello stesso individuo una dicotomia così evidente o la causa era da ricercarsi in fattori esterni?

L’Effetto Lucifero fu una delle risposte più inquietanti in tal senso.

Secondo la teoria del sociologo Gustave Le Bon le persone quando si trovano in un gruppo particolarmente coeso son portate a perdere il senso di identità e responsabilità.

Egli chiamò tale processo “deindividuazione.”

Una teoria tutta da dimostrare ma che affascinò tantissimo il docente dell’Università di Stanford Philip Zimbardo.

Lo affascinò a tal punto da convincerlo a provarla con un esperimento che scosse dalle fondamenta la psicologia sociale.

Zimbardo reclutò attraverso un annuncio su un quotidiano locale 24 studenti universitari di buona famiglia, assicurandosi minuziosamente che fossero incensurati e di indole non violenta. L’annuncio parlava genericamente di un “esperimento sociale”.

Una volta scelti, il docente li rinchiuse nei seminterrati dell’Università di Stanford, adibiti per l’occasione in una perfetta prigione.

Ebbe così iniziò quello che passò alla storia come “L’esperimento del carcere di Stanford.”

Qui i ragazzi furono divisi in guardie e detenuti, con l’ordine tassativo di comportarsi come in un vero istituto penitenziario.

Inoltre per accrescere ancora di più l’effetto di straniamento le guardie indossarono tutte la stessa uniforme e in particolar modo gli stessi occhiali a specchio per impedire ai detenuti di guardarli negli occhi e riconoscerne le espressioni.

L’esperimento doveva durare per due settimane ma dopo soli due giorni iniziarono a verificarsi i primi episodi di violenza.

Le guardie, anche col divieto assoluto di usare la violenza fisica, iniziarono a rendere la vita dei “detenuti” un vero e proprio inferno, umiliandoli nei modi più degradanti possibili.

Li costrinsero a lavare i bagni a mani nude, ad espletare i loro bisogni in un secchio e a fare continue flessioni fino alla totale spossatezza.

La situazione degenerò sempre più finché dopo i crolli nervosi di due ragazzi che impersonavano i detenuti Zimbardo fu costretto ad interrompere l’esperimento con una settimana di anticipo.

Cos’era accaduto? Secondo il docente nei ragazzi che impersonavano le guardie era avvenuta una totale deresponsabilizzazione individuale e tutti si erano praticamente svestiti della propria identità per seguire in maniera automatica le leggi del gruppo.

Di certo alcune circostante avevano favorito questo risultato, come l’aver chiamato ogni ragazzo prigioniero con un numero oppure ogni carceriere soltanto come “guardia.”

Ciò che rimaneva era però chiaro e agghiacciante: l’affievolimento della propria condotta morale a causa di situazioni che sfuggivano al controllo diretto dell’individuo.

Zimbardo chiamò questo risultato Effetto Lucifero.

A onor del vero bisogna però precisare anche le varie incongruenze e critiche che negli anni successivi colpirono questo esperimento.

Innanzitutto il campione da lui esaminato era effettivamente troppo piccolo per consentire il passaggio da semplice ipotesi a teoria vera e propria.

Inoltre molti dei ragazzi partecipanti all’esperimento confessarono di aver volutamente esagerato diversi atteggiamenti, sia per uscire prima del previsto per gli impegni universitari sia per far accadere qualcosa che potesse effettivamente generare materiale di studio per Zimbardo.

Ma se l’Effetto Lucifero è certamente impreciso, comunque il contributo che egli ha lasciato nella psicologia sociale è innegabile, soprattutto perché ha gettato le basi per studi molto più precisi sul comportamento degli individui nei gruppi.

In effetti a causa di una tradizione positivista tutta ottocentesca le radici del male nell’uomo erano sempre state rilegate a ragioni genetiche.

L’esperimento di Stanford per la prima volta cancellava questa sicurezza, ricordandoci dell’esistenza di fattori esterni e quindi di per sé incontrollabili anche nella sfera della propria individualità.

Una realtà molto spesso guardata con fastidio dall’Occidente ma a dirla tutta dal mondo intero perché ricordava qualcosa che tendiamo ad amare immensamente oppure odiare con tutte le nostre forze a seconda delle circostanze.

Che siamo solo umani.

Gabriel Santomartino

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Gabriel Santomartino

Classe 97, aspetto di laurearmi in lettere moderne e nel mentre mi nutro di romanzi, racconti e miti come ci si potrebbe nutrire solo di ambrosia. O di una pasta al forno, volete mettere? Appassionato in maniera megalomane di letteratura, fumetti e film col segreto proposito di conoscere un giorno una formula per leggere le emozioni all’interno dell’anima. E di diventare scrittore, ovviamente. Quando le idee sono troppe mi rifugio nella natura, magari con una cioccolata calda.
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