SocialePrimo Piano

Produci Consuma Crepa

In un tempo che richiede grandi idee, tanta creatività e connessioni umane, ci sentiamo fragili e isolati, così veloci da rendere impossibile porci le domande e fermarci per costruire delle risposte.

Raccogliamo e commentiamo numeri relativi allo stress, mancanza di motivazione, problemi psicologici, assenteismo, calo della produttività, come se al “sapere” equivalga il “risolvere” ma l’essere umano, è ormai chiaro, non funziona così.

Tommaso ha 25 anni. Un percorso scolastico brillante – ingegnere biomedico – e un ingresso nel mercato del lavoro infelice: una serie di lavori a nero uno più sbagliato dell’altro. Prima un importante laboratorio, dove lo tenevano a fare le fotocopie. Poi receptionist e anche cameriere, allestitore per fiere, infine parcheggiatore in un garage. Tommaso cercava qualcosa di vero. Qualcosa che si tocca. Qualcosa che ti fa dire: “Io lavoro per” e non ti fa vergognare tutte le volte che ti chiedono: “Ma tu che lavoro fai?”.

Perché è quella la prima domanda che si fa.

Tommaso ora è un fattorino, anche se ora si dice “rider”. Che suona meglio perché dà un’idea di libertà. Il rider corre. Il rider gira e taglia il vento. Il rider è libero.

Giulia ha 32 anni, laureata in scienze politiche e relazioni internazionali, parla inglese e arabo, gestisce un’associazione che svolge attività senza scopo di lucro con finalità solidaristiche e di utilità sociale, ci prova in tutti i modi a seminare nel suo territorio ma il seme non germoglia quasi mai. Giulia oggi è una maestra alla scuola primaria e mi ha detto che è stanca di correre, di cercare a tutti i costi di fare carriera: “la mia idea di lavoro è crollata, io voglio solo stare bene”.

Alessandro è un giornalista, sottopagato e nel migliore dei casi non pagato affatto. Laureato in scienze della comunicazione, con un master in social media marketing e un corso in longform alla Scuola Holden di Milano, da anni socio fondatore di un’associazione culturale, direttore artistico di alcuni eventi nel vesuviano, si adopera per cercare qualsiasi tipo di impiego, demoralizzato e consapevole che i sogni nel cassetto troppe volte ammuffiscono. Oggi disoccupato.

Giada è un insegnante precaria, rincorre il mondo della scuola affannando il più delle volte e arrivando a bocca asciutta. Continuamente in bilico se acquistare o meno tutte le certificazioni necessarie per fare punteggio in graduatoria o comportarsi da buona cittadina senza aggirare la legge. Giada ha 27 anni, dà ripetizioni di latino per pagare l’affitto, le bollette e dare da mangiare ai gatti, aspetta una supplenza, una convocazione o una manna dal cielo. Anche lei è stanca, di non avere tempo e di non avere soldi.

E potrei continuare così all’infinito, Simona, Luca, Francesco, Gaia, Rebecca, Raffaele. Vasco cantava siamo solo noi, generazione di sconvolti che non ha più santi né eroi; siamo sconvolti da quello che abbiamo visto, dal mondo che abbiamo trovato e che non ci piace, perché quando sei giovane non ti piace niente, c’è proprio un periodo in cui sei sempre incazzato. Noi lo siamo particolarmente. Non abbiamo più i santi e gli eroi di un tempo, crollati tutti gli ideali degli anni ’60 e ’70.

Cerchiamo solo di vivere con leggerezza, ma sopravviviamo.

Un vecchio professore all’università mi disse: fai quello che ami e non lavorerai neanche un giorno. Noi ci proviamo, davvero, a me sembra che ce la stiamo mettendo tutta. Ma se ti impegni non basta.

Giovanni Lindo Ferretti lo sapeva, Produci, consuma, crepa è una frase cantata dai CCCP Fedeli alla linea, per spiegare quanto siamo diventati parte di un sistema dove, in effetti, tu puoi produrre, consumare, crepare e non è che puoi, ma lo devi fare.

E non c’è nulla di male a produrre, consumare, e poi morire com’è giusto che sia. La differenza sta nel come si affrontano certe prerogative nel corso della propria vita. È nella meccanicità di tutto questo che esiste l’errore, nel fatto che si diventa schiavi sociali, spettatori di una vita che non è la nostra.

La parola che sento usare spesso dai miei coetanei è “tossico”, termine che viene usato anche come sinonimo di “velenoso”. In un ambiente di lavoro ad alta tensione e pressione, le persone non si sentono al sicuro, si sentono svalutate e sminuite. E, ovviamente, stanno male e lavorano male.

Sono i vecchi comportamenti a non funzionare più oppure siamo cambiati noi? Il mondo è girato su se stesso molte volte negli ultimi anni ed è cambiato letteralmente tutto, ma a scuola si studia ancora come in ufficio si seguano delle regole che seppure vengono via via decostruite, sono comunque ancorate a una certa visione del mondo. Così, una reazione che prima era considerata anomala – stare male mentalmente a causa dell’incapacità ad accettare di lavorare (e di vivere) in un certo modo – sta iniziando a riguardare tutti.

Dallo psicologo online alla meditazione, da giorni di stop per evitare il conseguente rischio di burn-out. Va bene curarci, ma come evitare proprio di ammalarci di tristezza sul lavoro?

Io non so quale sia la cura perfetta, né l’intruglio magico da poter deglutire per stare miracolosamente bene. Vorrei poter dire a Tommaso, a Giulia, ad Alessandro e a tutti i miei fratelli e sorelle che riusciremo in tutto quello che desideriamo, ma io non lo so. Vorrei dirci di non affrettare i tempi, di rispettare il corso delle cose, di accettare quando vogliamo e di rifiutare quando non ci sentiamo a nostro agio. Vorrei abbracciarci e dirci che tra qualche anno non esisteranno più lavori a nero e posizioni sottopagate, che verseremo tutti i contributi, che avremo un CUD perché esistiamo finalmente e che avremo tutti un contratto degno di un lavoratore, e che smetteremo di correre.

Ma quando il dolore passa e la rabbia svanisce, capisci che tutto quel rumore e quelle crepe, gli scossoni ad alta magnitudo e quei rimpianti del se avessi fatto questo piuttosto che quell’altro, non sono serviti a niente perché il mondo è andato avanti, e che ti piaccia o no, ci è riuscito anche senza di te.

Serena Palmese

Leggi anche: In Irlanda l’arte paga: introdotto il Reddito di Base per le Arti

Serena Palmese

Mi piacciono le persone, ma proprio tutte. Anche quelle cattive, anche quelle che non condividono le patatine. Cammino, cammino tanto, e osservo, osservo molto di più. Il mio nome è Serena, ho 24 anni e ho studiato all’Accademia di belle Arti di Napoli. Beati voi che sapete sempre chi siete. Beati voi che sapete sempre chi siete.
Back to top button