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Liberare il possibile, materia e meccanismo nel cinema di Charlie Chaplin

Figura emblematica e star del cinema muto, Charlie Chaplin, attore, regista e compositore inglese, ha saputo incarnare lo spirito di un’epoca, quella della prima metà del Novecento, evidenziandone sfaccettature e contrasti con i suoi film caratterizzati da una comicità mai fine a sé stessa, ma imperniata su di una critica mordace della società borghese capitalistica e dei suoi meccanismi esclusivi e competitivi.

Dai suoi primi cortometraggi degli anni Dieci come The Tramp, The Rink e tanti altri che hanno reso celebre la figura del tramp, passando per i suoi film più noti come The Kid, A Woman of Paris, The Gold Rush, City Lights, Modern Times, fino alla celebre parodia del nazismo The Great Dictator, solo per citarne alcuni, Chaplin inaugura una stagione innovativa della commedia hollywoodiana, ritagliandosi un suo spazio di autonomia critica.

L’eccentrico vagabondo Charlot, che con i suoi baffetti neri, la bombetta e il suo completo elegante sdrucito e sgualcito passeggia in modo buffo per le vie cittadine atteggiandosi a gran borghese è un’immagine così viva e conflittuale che parla da sé, non ci sarebbe bisogno d’altro.

Charlot il vagabondo diviene nel corso dei primi decenni del Novecento un simbolo del cinema progressista, non a caso Chaplin ebbe problemi negli Stati Uniti nel periodo maccartista della caccia alle streghe e fu costretto a stabilirsi in Europa, essendo stato accusato nel 1952 di filocomunismo.

I suoi film, proprio in virtù del loro carattere di novità, ebbero notevole influenza sulle avanguardie, tra i principali critici della sua cinematografia furono autori come Sergej Ejzenštejn, Bertolt Brecht, Philppe Soupault, Walter Benjamin e altri.

Non è un caso che il film avanguardistico Ballet mécanique (1924) del pittore cubista Fernand Léger cominci proprio mostrando la figura di Charlot scomporsi e ricomporsi, nel riplasmare e deformare ritmicamente sé stesso; in quest’ottica è evidente la portata socialmente rivoluzionaria del personaggio chapliniano.

Del significato sociale della filmografia di Chaplin era ben consapevole un critico come Walter Benjamin, che nel suo saggio Chaplin: sguardo retrospettivo riprende e amplia le considerazioni di Soupault.

Benjamin nota come i film di Chaplin aprano un nuovo e più ampio margine d’azione per l’uomo, schiudendo un orizzonte di possibilità di gioco con la realtà, con gli oggetti che vengono strappati alle loro funzioni prestabilite e utilizzati in modi nuovi, sorprendenti, che ci appaiono ridicoli perché impensati, non integrati.

Esattamente nelle buffe movenze di Charlot, nel suo scontrarsi con gli oggetti, le persone, nel suo scivolare, rialzarsi, che rendono la sua figura plastica e malleabile, si manifesta il potenziale di liberazione della materia vivente.

Riferendosi al film The Circus (1928), scrive Benjamin che “la cosa più commovente di questo nuovo film è come Chaplin domini qui tutta la sfera delle sue possibilità di azione, deciso a condurre in porto la sua causa con esse e soltanto con esse. Le sue trovate più grandiose ricompaiono ovunque nelle più splendide varianti”.

Charlot, lo si vede in tutte le salse, sempre di troppo, sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, sempre ingombrante, come nel primo cortometraggio in cui compare Kid Auto racing at Venice (1914) col quale facciamo la sua conoscenza.

Il piccolo tramp interpretato dallo stesso Chaplin esprime i conflitti socio-economici e culturali della sua epoca, li affronta, cerca di riplasmarli attraversandoli; effetto reso proprio dalla plasticità e dinamicità dei suoi movimenti che sembrano voler esplorare tutte le possibilità, le potenzialità della materia, dell’esistente.

da Sapere.it

Charlot appare continuamente come la figura che incarna il luogo della contraddizione, il punto di frattura, il bastone tra le ruote dei meccanismi sociali standardizzati che vengono continuamente parodiati al fine di far emergere la loro intrinseca violenza.

Modern Times (1936) in questo senso è paradigmatico, con la sua denuncia dei meccanismi dello sfruttamento operaio e della repressione violenta di ogni forma di protesta.

Ma non è soltanto il sistema industriale capitalistico ad esser messo alla berlina, ma anche i suoi risvolti sociali e culturali, che trovano la loro principale espressione nell’elitarismo di una certa borghesia e nel suo appropriarsi dei meccanismi dell’industria culturale escludendo così interi strati sociali.

Il vagabondo protagonista delle commedie di Chaplin è colui che sta rappresenta l’altro, lo sconfitto, l’eccentrico, il non integrato e, proprio nel suo sforzarsi di raggiungere qualcosa, di atteggiarsi ad uomo realizzato, cadendo sempre nel ridicolo, sta il cuore della sua critica alla psicologia piccolo-borghese e al suo ingenuo ottimismo che l’attore inglese aveva avuto modo nel corso della sua giovinezza londinese, di osservare da vicino.

Come ricorda Soupault “nei suoi infiniti andirivieni per le strade di Londra, con le loro casette rosse e nere, Chaplin ha imparato a osservare. Egli stesso racconta che l’idea di mettere al mondo l’uomo con la bombetta, i baffetti e la canna di bambù, che cammina a brevi passi poggiando sui tacchi gli venne per la prima volta quando osservò il piccolo impiegato dello Strand. In questo atteggiamento e abbigliamento Chaplin vide la mentalità dell’uomo che si dà una certa importanza”.

Certamente Chaplin fa ridere e vuole far ridere, ma è un riso malinconico, che lascia l’amaro in bocca, quello suscitato dalle sue commedie, quasi un riso colpevole che ha lo scopo di scuotere lo spettatore.

Nonostante la commedia chapliniana tipicamente sia caratterizzata in quanto tale dal classico happy ending si tratta di un finale dolceamaro che non concilia il potenziale critico, conflittuale e il carattere progressista dei suoi film. 

Il finale felice della commedia di Chaplin non autoassolve quella società borghese, capitalistica fondata sul profitto e lo sfruttamento del lavoro né tantomeno giustifica i suoi operatori, ma proprio nel suo evidenziare in modo esemplare e accessibile a tutti questi meccanismi, li svela e cerca con tenerezza e ironia delle possibilità alternative.

Benedetta De Stasio

Copertina: Fabrique du Cinema

Benedetta De Stasio

Filosofa per vocazione e plant mom a tempo pieno. Scrivo, coccolo gatti e mi piace cimentarmi in cose che non so fare, come dipingere, cantare e cucinare. Colleziono emozioni e frammenti di vita quotidiana. Credo nel vivi e lascia vivere e che piccoli gesti ed attenzioni possano cambiare il mondo.
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