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È tutta colpa del cibo

Non lo so quando è iniziata. 

Non so di preciso quando ho iniziato a sentirmi a disagio col mio corpo, né quando da questa sensazione di disagio sono passata a sentirmi completamente sbagliata.

Non so dire neppure quand’è che ho riversato questo mio malessere sul cibo, incolpandolo di ogni mio male.

Non so dirlo, ma so dire che a un certo punto ho iniziato e forse non ho ancora del tutto finito. So per certo che, tra tutti i drammi che ho vissuto, quello del cibo è stato quello che più mi ha corrosa dentro, consumandomi lentamente e inesorabilmente. 

Mi ha corrosa dentro perché non ne ho mai parlato con nessuno, non per davvero, almeno. Neppure col mio psicologo che era lì per quello, per aiutarmi – o per provarci. Non mi ci soffermavo mai su quel rapporto complesso, fatto d’odio più che di amore, che stavo cominciando a intessere col magico e maledetto mondo del cibo. Lasciavo delle frasi a caso, buttate lì fuori contesto, senza senso, sperando che qualcuno le cogliesse al volo e desse loro il senso che neppure io riuscivo a dare. 

Forse cercavo un aiuto senza che parlassi, senza che dalla mia bocca uscissero le fatidiche parole “ho un problema col cibo”. Perché, a quel punto, dirlo avrebbe voluto dire ammettere e prendere consapevolezza del problema e io, è ovvio, non avevo mica problemi col cibo? 

Non mi sono mai sentita bella, questo mi sembra giusto specificarlo. Non mi sono mai guardata allo specchio pensando di essere bella. A volte mi dicevo che ero carina, accettabile, nulla di troppo orribile. Ma bella mai, non quel tanto che sarebbe bastato a farmi sentire in pace con me stessa. “È perché mangio troppo”, mi dicevo, “se mangiassi di meno sarei più carina, meno sbagliata” e da lì è stata tutta una strada in discesa in un vortice fatto di autodistruzione e annichilimento. 

Ero solo una normale adolescente che divorava immani quantità di cibo e poi si faceva divorare dai sensi di colpa (non so se è proprio il caso di usare l’imperfetto come tempo verbale). Ero solo una che, quando qualcuno le preparava del cibo, fingeva di mangiarlo e poi, alla prima occasione utile lo sputava in un fazzoletto. E la cosa mi faceva sentire vile, sporca, ancor più inadeguata di prima.

Ero solo una normale ragazza che, quando gli amici le proponevano di andare a mangiare fuori, diceva spesso di no, assalita dall’ansia di non sapersi controllare e di esagerare con le quantità. Una normalissima ragazza che tutt’oggi veste quasi sempre abiti larghi, tranne quando ha quell’improvvisa botta di autostima che la rende coraggiosa e allora indossa anche cose attillate. Ma raramente.

Non avrò perso venti chili, certo, il mio malessere dall’esterno non si vedeva (e non si vede), ma le mie pareti interne sono ancora corrose per le innumerevoli volte in cui ho fatto ricorso alla temutissima pratica del vomito autoindotto. Le sento ancora bruciare ogni volta che mangio, sento ancora quel maledetto impulso che oggi, per fortuna, riesco a reprimere.

Le mie nocche ne portano ancora i segni, invisibili per gli altri, ma per me sono lì, ogni giorno. È come se si fossero modellate, adeguate, per vivere bene nelle profondità della mia gola. Come se fossero fatte per stare lì e basta.

Non avrò perso venti chili, certo, ma i sensi di colpa sono ancora lì, sedimentati sul fondo del mio stomaco insieme al cibo che oggi non ho ingerito. Insieme ai chili che avrei voluto terribilmente perdere e non ho perso. 

Insieme alle parole d’aiuto che nessuno mi ha mai sentito gridare, perché rimanevano dentro, le ingoiavo insieme al cibo e poi le vomitavo, insieme al cibo. Tirato lo sciacquone, sparivano e un po’ sparivo anch’io. 

Eppure, no; ancora non riesco a inserirmi nella categoria di quanti hanno sofferto di disturbi alimentari. Proprio non ci riesco. “Non ho perso abbastanza chili”, mi dico, “per poter rientrare nella categoria”. Nessuno l’ha mai notato, nessuno mi ha mai guardata dall’alto in basso per dirmi che ero troppo magra o troppo grassa, nessuno mi ha mai chiesto che diavolo stessi combinando.

Quindi no, non ho nessun disturbo alimentare e non vale nemmeno la pena parlarne. Forse perché ho sempre paura che qualcuno rida di me e mi dica di smetterla di fare la vittima e di giocare su problemi seri. Vomitare, nascondere il cibo nei fazzoletti, saltare i pasti ogni volta che potevo, rifiutare di socializzare per paura del cibo, o anche di una semplice bevanda zuccherata non sono problemi seri. 

Così la pensavo quando ero immersa in quel vortice di autodistruzione. Era quello che volevo: autodistruggermi e non darlo a vedere a nessuno, fingere che andasse tutto bene. 

Fingere che il mio nemico reale fosse lo specchio, non l’immagine riflessa al suo interno, non quel corpo sempre troppo in carne, non quella pancia sempre troppo pronunciata, non quel viso sempre troppo tondo e paffuto. 

Tutti mi dicono (e forse è vero) che ho lo stomaco minuscolo di un uccellino, che mangio piccole quantità di cibo e mi sazio facilmente. Ma a me non sembra, mi sembra sempre di mangiare troppo, di avere una voragine al posto dello stomaco, mentre gli altri mi dicono che mangio troppo poco.

Forse è questo il mio problema. Sempre troppo o sempre troppo poco. 

Mai una via di mezzo, quella che mi faccia odiare di meno il cibo, che mi faccia avere un rapporto sano con lui

Che faccia felice me e gli altri. 

Anna Illiano

Foto di Giovanni Allocca

Anna Illiano

Anna Illiano (Napoli, 1998) è laureata in Lingue e Letterature euroamericane e si sta specializzando in editoria e giornalismo presso La Sapienza di Roma. Ha un blog personale “Il Giornale Libero” ed è articolista per il magazine La Testata. Dal 2021 collabora occasionalmente col giornale “il Post Scriptum”
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