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“Un amore” di Dino Buzzati. Milano, sesso e languida pornografia

Un amore di Dino Buzzati è quel libro che non bisognerebbe leggere prima dei trentacinque anni o giù di lì.

La percezione morbosa, asfissiante e anche squallida dell’amore – prima di quell’età – a mio parere non esiste. 

Lentamente, l’amore e le sue implicazioni – da magiche e tormentate aspettative giovanili – iniziano a declinarsi, a sfaccettarsi. Ed è spesso un bene, perché concepire l’amore nelle sue esuberanze ma anche nella sua squallida banalità è importante. Dino Buzzati è un autore amato e timidamente controverso. La sua sessualità melliflua e pornografica – senza mai essere sensuale, erotica, eccitante – parla di un amore “impuro”, potente e mutilato nelle sue motivazioni. 

La storia che Buzzati ci racconta nel suo romanzo Un amore, quella tra il cinquantenne ed illustre architetto Antonio Dorigo e la prostituta diciannovenne Laide, è una storia sbagliata e triste. Eppure, nella sua imperfezione, nella sua malattia, è una storia d’amore. Il protagonista, raggiunta la mezza età, è un uomo che per tutta la vita non è “mai riuscito ad essere a suo agio con le donne come con gli uomini”. Le donne, nella loro sfacciata estranietà, ad Antonio sono sempre sembrate aliene, irragiungibili. Il loro essere altro le ha rese inavvicinabili, a meno che non vengano pagate per offrire i loro corpi, piegandosi e genuflettendosi ai desideri maschili. 

L’unico rapporto che lo stimato architetto Dorigo riesce ad avere con le donne è attraverso la loro prostituzione. E la prostituzione, i bordelli, le interazioni tra clienti e prostitute diventano una lente d’ingrandimento – un filtro prezioso – attraverso il quale studiare la Milano degli anni ’60. Una Milano che appare vera, a distanza siderale dalla città “bene”, degli aperitivi, dei Navigli, delle apericene, del lavoro. Milano è anche le sue realtà celate, basse, sporche, senza dignità. Lasciando indietro l’idea cool, di velocità, di funzionalità, Buzzati restituisce una Milano decadente e poetica. 

L’intreccio – molto simile a quello di Lolita, ma arricchito dalla prosa fantasiosa e creativa di Buzzati – vede l’innamoramento irrazionale e totale dell’attempato Dorigo nei confronti della capricciosa, giovane Laide. Un rapporto sessuale e non sessuale, un gioco del gatto con il topo, ma principalmente una storia di vuoto e paura. Il vuoto e la paura di una vita intera vissuta a distanza dagli affetti reali, riempita solo dall’illusione di questo amore impossibile per una giovinetta impertinente. Impertinente, sì, ma senza dubbio il personaggio più originale e vitale dell’intero romanzo. Laide è descritta dall’occhio infatuato di Dorigo con una miscela magica di grigi, ombre, piccoli movimenti, scatti, istantanee indimenticabili. Laide è vera, viva, la guardiamo giacere ai piedi del nostro letto dopo una notte d’amore mentre Buzzati ce ne suggerisce le forme, i comportamenti. 

La grande vitalità linguistica nel descrivere dettagliatamente le pene d’amore, inoltre, arriva dritto al cuore del lettore, una fitta ineluttabile. Buzzati, nonostante sembri muoversi in un campo vagamente autobiografico di costipazione emotiva, riempie di emotività la sua lingua scritta. Un amore è distante dalle atmosfere di Il deserto dei tartari e compie la propria parabola malinconica. I temi che segnano sono la delicatezza dell’animo umano, la nostalgia e l’attrazione verso la gioventù, la fascinazione di un uomo di cultura verso il “popolo”. Il “popolo”, libero e spregiudicato, è avulso dalla dignità forzata in cui è relegata la alta borghesia. 

Buzzati, raccontando la storia di un uomo e di una donna, dipinge un paese e al contempo coglie la tragidità della condizione umana. Il ritratto del femminile e del maschile, all’epoca contrastante e definito, esemplifica un conflitto millenario, una rivendicazione ancora incompiuta. 

Vivamente consigliato! Buona lettura! 

Sveva Di Palma

Vedi anche: Terapia di coppia per amanti: ossimori ed altre scomode verità 

Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.
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